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Detta così è poco più di una suggestione, uno scenario assurdo e strampalato persino per una serie Netflix. Fantapolitica in purezza. Eppure questa pazzesca versione dei fatti ha il merito, incomparabile, di spiegare tutto: Donald Trump, 46esimo presidente degli Stati Uniti sarebbe una spia del Cremlino, una “risorsa” attiva di Vladimir Putin.
Spiegherebbe le bordate all’Ucraina di Zelensky, il rifiuto di definire la Russia come «aggressore», la sospensione dei cyberattacchi contro Mosca, l’inchiesta sul Russiagate, le decine di dichiarazioni amichevoli nei confronti dello “zar” e il veleno riservato agli alleati europei e persino alla Nato.
L’illazione circola da tempo e quasi sempre sotto forma di paradosso, o di iperbole giornalistica, roba poco seria, da complottisti della domenica, tanto che i media più autorevoli non le hanno mai dato troppo peso. Ma la scorsa settimana, sul web è spuntato un messaggio di Alnur Musayev, ex agente del Kgb e poi dei servizi kazaki che ha rilanciato su tutta la linea. Secondo Musayev Trump non soltanto lavora alacremente per la Russia, ma lo fa da quasi quarant’anni, quando sulla Piazza rossa sventolavano ancora le bandiere dell’Unione sovietica.
Lo avrebbero reclutato gli 007 di Mosca alla fine degli anni 80, nome in codice “Krasnov”, un nome derivato dall’aggettivo krasniy che in russo significa “rosso”, probabilmente un ironico riferimento alla fulva capigliatura del tycoon. Da allora avrebbe sempre coltivato e sostenuto gli interessi della Russia, in stato “dormiente” dopo la caduta del socialismo reale e “rianimato” dall’arrivo di Vladimir Putin nelle stanze del potere.
La “bomba” di Musayev è stata ripresa da diversi organi di informazione ma con mille distinguo e bemolle. D’altra parte la spia kazaka è un personaggio opaco e poco credibile; il post che ha pubblicato su Facebook contiene infatti diverse imprecisioni. Ad esempio Musayev sostiene che ad arruolare il tycoon sarebbe stata la Sesta divisione del Kgb che però si occupava di spionaggio industriale e non del reclutamento di agenti stranieri, compito appaltato invece alla Prima divisione dei servizi russi.
Dai registri ufficiali emerge poi che Musayev ha sì prestato servizio per il Kgb negli anni 80, ma nell’Ottava divisione, in forza al ministero degli Interni. Inoltre non specifica se sia stato lui stesso a contattare Trump o se ha ricevuto indirettamente l’informazione. A macchiare la nomea di Musayev i suoi trascorsi non proprio specchiati negli apparati di sicurezza del Kazhakistan da cui è fuggito nel 2008, accusato di corruzione, tortura e tentativo di Colpo di Stato. Esiliato in Austria, nel 2008 ha subito un tentativo di sequestro e tutt’oggi vive in una località segreta. Insomma il profilo ideale del mestatore.
Tuttavia le rivelazioni di Musayev coincidono con quelle di Yuri Shvets, inviato sovietico a Washington dall’80 al 90 per l’agenzia Tass nonché agente dell’intelligence di Mosca. Amico intimo di Alexandr Litvinenko, l’ex agente del Fsb assassinato a Londra nel 2006, da anni Shvets è un convinto oppositore di Putin e le sue parole devono essere filtrate a dovere.
Intervistato dal giornalista americano Craig Unger che ha scritto un libro intero sulle relazioni pericolose tra il tycoon e i colbacchi, Shvets racconta che Trump apparve per la prima volta sul radar dei russi nel 1977 quando sposò la sua prima moglie, Ivana Zelnickova, una modella di origine cecoslovacca, evidenziando il ruolo centrale dei servizi di Praga nell’indicare la risorsa al Kgb. Stando a Unger nel corso dei decenni i contatti tra le due sponde dell’oceano sono stati frequenti e lucrativi anche con l’entrata in gioco della cosiddetta mafia russa prosperata dopo la fine dell’Urss e che avrebbe giocato un ruolo importante negli investimenti immobiliari di The Donald.
Per non cedere alle suadenti sirene del cospirazionismo, bisogna però attenersi ai fatti accertati. Di sicuro nel 1987, Trump accompagnato dalla moglie Ivana visita Mosca per esplorare nuove opportunità immobiliari, l’idea è costruire alberghi di lusso nella capitale dell’Urss, uno dei quali a due passi dal Cremlino. La coppia alloggia nella prestigiosa "Lenin Suite" del National Hotel, una stanza notoriamente sorvegliata dalle autorità sovietiche. Durante il breve soggiorno Trump incontra i burocrati dell’ente statale per il turismo, discute di affari ed espone i suoi progetti, ma non se ne fa nulla.
Al suo ritorno in patria, però, pubblica una lettera aperta a pagamento sui principali quotidiani statunitensi, tra cui il New York Times, e il Washington Post per criticare la politica estera di Ronald Reagan, a suo dire troppo dura con l’Urss e lassista con gli alleati “scrocconi”; una specie di manifesto politico in cui, per la prima volta, evoca la possibilità di candidarsi alla Casa Bianca (le presidenziali si sarebbero svolte l’anno successivo con la vittoria di Bush padre, opportunità che coglierà 28 anni dopo).
In tutto questo tempo ha lavorato sottotraccia per gli interessi della Russia? Sarebbe l’operazione di spionaggio più clamorosa della storia ma per dimostrarlo ci vogliono prove concrete e finora nessuno è stato in grado di individuarle.