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«Si tratta di una misura educativa», ha spiegato ieri in aula il presidente della Giunta provinciale di Trento ed esponente della Lega, Maurizio Fugatti. Proprio a sua firma, infatti, è stato depositato un disegno di legge provinciale che riforma i criteri di assegnazione delle case popolari in Trentino: non più solo il reddito, ma anche la fedina penale propria e dei propri familiari. L’articolo 14 del disegno di legge provinciale 36/ 2019, infatti, prevede “l’assenza da parte del richiedente e dei componenti del nucleo familiare, nei dieci anni precedenti la data di presentazione della domanda, di condanne definitive per i delitti non colposi per i quali la legge prevede la pena della reclusione non inferiore a cinque anni, nonché per i reati previsti dall’articolo 380, comma 2, del codice di procedura penale'.
Tradotto: non può chiedere un alloggio popolare chi è stato condannato per reati per cui il codice penale prevede una pena di almeno cinque anni ( la condanna effettiva, però, potrebbe essere anche inferiore), oltre che per i reati come il furto aggravato, la rapina, tutti i reati che riguardano sostanze stupefacenti e i maltrattamenti.
Non solo, però: anche chi ha la fedina penale intonsa si vede privato del diritto di chiedere la casa popolare se un componente della sua famiglia è stato condannato per uno di questi reati nei dieci anni precedenti la domanda. Infine, la sopravvenienza di una condanna all’assegnatario o a uno dei suoi familiari provoca la revoca della casa popolare o, nel caso, il mancato rinnovo dell’assegnazione. «Chi usufruisce di un alloggio pubblico deve avere un comportamento il più possibile onesto e trasparente. Mi rendo conto che è una norma forte, ma la riteniamo giusta», è stata la spiegazione di Fugatti davanti agli attacchi dell’opposizione - Partito democratico, la lista civica Futura e il Partito autonomista trentino -, poi ha ribadito: «Io devo essere nella condizione di evitare che negli appartamenti ci sia chi delinque».
Un verbo al presente che, tuttavia, non terrebbe in considerazione che la norma si applica a chi già è finito tra le maglie della giustizia ed è stato condannato, dunque sta scontando o ha già scontato la pena e dunque per lo Stato è riabilitato. In difesa della previsione è arrivata anche la consigliera leghista Mara Dalzocchio, la quale ha invitato a «leggere l’articolo senza coinvolgimenti emotivi ed a cogliere la ratio della norma, che risponde alla necessità della tutela della pubblica amministrazione dal rischio che gli immobili pubblici possano essere usati per scopi illeciti, immorali e delittuosi». Partendo, appunto, dal presupposto che chi è stato trovato in fallo una volta ragionevolmente tornerà a delinquere, magari proprio servendosi degli immobili pubblici.
I tre consiglieri dell’opposizione - il dem Giorgio Tonini, l’autonomista Ugo Rossi e Paolo Ghezzi - hanno sollevato il problema della potenziale incostituzionalità della norma rispetto all’articolo 27 della Costituzione e in particolare al principio che la responsabilità penale è personale, visto che l’articolo 14 farebbe ricadere su genitori, figli o coniugi gli effetti negativi di una condanna penale. «Ma ha chiesto un parere legale?», ha chiesto Ghezzi. «No - ha risposto Fugatti -, perchè una norma del tutto simile è già in vigore in un’altra regione e non è stata impugnata», dunque «ha già superato i dubbi sulla costituzionalità». In realtà, il vaglio di costituzionalità di una legge è sempre attivabile in via diretta o in via incidentale senza alcun limite di tempo e dunque potrebbe essere sollevato in qualsiasi momento dai legittimati ( per esempio, un cittadino che si veda privato dell’alloggio per un delitto commesso da un parente e che ricorra davanti a un giudice).
La norma, inoltre, potrebbe venire valutata anche rispetto al terzo comma dell’articolo 27 della Costituzione sulla funzione riabilitativa della pena, che verrebbe meno nel caso in cui, a condanna scontata, i suoi effetti continuassero a prodursi indirettamente sul cittadino che ha esaurito il suo debito con lo Stato, incidendo un diritto come quello alla casa.
Oltre a un vaglio di costituzionalità, tuttavia, la legge è destinata a produrre nella pratica un effetto distorsivo, in particolare nel caso dei maltrattamenti. Se la famiglia risiede in un alloggio popolare, la moglie denuncia il marito per maltrattamenti in famiglia e quest’ultimo viene condannato, il risultato paradossale sarebbe la perdita di requisiti per l’alloggio anche della stessa moglie e dei figli. «Se si individuano delle formule che escludano di colpire i soggetti non coinvolti siamo pronti a parlarne», ha assicurato Fugatti. «Non comprendo come», ha risposto Tonini, che ha parlato di norma che «così com’è formulata rischia di aggiungere disgrazia a disgrazia».
Secondo questa logica, ha rincarato Rossi, «lo stesso si dovrebbe far valere anche per gli artigiani che prendono un contributo e che hanno un figlio che spaccia, o per un albergatore che gode di contributi pubblici e ha un figlio che delinque, o per chi riceve un contributo all’affitto ed ha un figlio criminale. Cerchiamo di stare nel solco di riferirsi all’utilizzo dell’alloggio, dunque, altrimenti rischiamo fare una norma che penalizza le persone». In realtà, il sospetto è che la norma - che evidentemente restringe la platea degli aventi diritto ad una casa popolare sia stata introdotta per fare il paio con un’altra previsione contenuta nel pacchetto di disegni di legge collegati alla manovra di bilancio trentino 2020.
Nel bilancio di previsione, alla voce edilizia residenziale pubblica, vengono stanziati per gli investimenti ( per ristrutturare o costruire nuove case), 157,7 milioni di euro: 71 milioni in meno rispetto all’anno in corso, con un taglio del 31% all’edilizia popolare trentina. Duqnue, meno aventi diritto, meno necessità di fondi.
L’altra regione in cui è presente una legge simile è l’Abruzzo, dove il 15 ottobre di quest’anno la Giunta guidata da Marco Marsilio, di Fratelli d’Italia, ha modificato la legge esistente ( che già estendeva ai parenti gli esiti negativi di una sentenza penale), abbassando il limite di condanna a due anni ( rispetto ai precedenti cinque) per perdere il diritto all’assegnazione di una casa popolare. Non solo, nella versione abruzzese, il divieto di assegnazione della casa scatta addirittura con la sentenza di primo grado ( dunque senza attendere il suo passaggio in giudicato) nel caso in cui i reati riguardino le violenze domestiche.