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Il termometro della viabilità di massa cresce con il crescere della temperatura e la voglia di vacanza. Ci siamo, agosto è vicino. Questo pezzullo lo dedico agli “autostradisti”. Non sono uno specialista di storia e sociologia delle autostrade, di sistemi viari e codici della strada. Quello che penso di sapere lo ho appreso da lettore, da libro a libro; oppure sul campo: da casello a casello.
Certo a disposizione c’è una buona letteratura di riferimento. Enrico Menduni nel 1999 ha pubblicato una piccola ma intelligente storia sociale dell’Autostrada del Sole. Tra Kerouac e Virilio, piccolo manuale di guida in autostrada ( o nella vita...)
Francesco Pinto su quell’opera immane di asfalto e unificazione nazional- popolare ha scritto “La strada dritta”, romanzo a suo modo storico e di formazione. E Emanuele Bevilacqua non può non avere parlato di auto e di strade nella sua “Guida alla Beat Generation. Kerouac e il rinascimento interrotto” del 2007.
Le strade d’America, anche quando strette e sterrate, hanno sempre il medesimo destino della grandi autostrade. Andare da costa a costa o fermarsi al centro del deserto: questa è l’avventura di una iniziazione di lunga durata, che ha per posta dominare la potenza del capitalismo o esserne distrutti. Eroi o carne da macello, comunque “commessi viaggiatori”. E poi ci sono autostrade a schiovere nel cinema hollywoodiano e posthollywoodiano. Decenni e decenni di pellicole. Sono forse i film che più ci hanno educato – noi europei – al mito esaltante e insieme funesto del Nuovo Mondo. Uno tra questi film è stato di culto per chi stava intuendo che, tra strade e media, il rapporto di reciprocità sarebbe divenuto sempre più stretto, così da ridefinire confini e barriere della mobilità sociale, reale e immaginaria: Punto zero ( Vanishing Point), un road movie del 1971. Senza segnali del genere – lo “stallo” vissuto da un povero disperato nichilista, fermo nel deserto tra mare e mare – Quentin Tarantino non si sarebbe potuto manifestare con la sua prediletta poetica dello “stallo alla messicana”.
Ma di certo il suggerimento più pertinente – per noi in procinto di disumanizzarci in prospettiva non del passato ma del futu- ro breve del post- moderno – ce lo ha dato Jean Baudrillard con “America” del 2009. E qui siamo al punto da cui partire: la stretta analogia panoptica della visione frontale, rapida e inarrestabile, che lega la postura di chi guida l’auto alla postura di chi vede la televisione. Niente male: che fine ha fatto lo sguardo dell’“angelo nuovo” di Walter Benjamin, costretto, come la Storia, a volare senza vedere dove va, e potendo guardare obtorto collo solo le rovine che si lascia alle spalle? Il fatto è che le rovine ora ci stanno davanti e non solo agli occhi: sono in anticipo sul nostro sguardo. Ci vengono contro. Ce le sentiamo dentro.
Se trovate che abbia preso con troppo sfoggio di cultura libresca e filmica un argomento così triviale come le autostrade, fermiamoci all’esperienza di ciascuno di noi quando è alla guida di se stesso, solo o in compagnia o con famiglia che sia. Dunque restiamo con le mani ferme sul volante. La prima riflessione da fare riguarda il nostro desiderio irrefrenabile di velocità: nella nostra persona c’è tutto un concentrato di fretta, impazienza, urgenza di arrivare alla meta. Ma anche il senso di liberazione – vera e propria smaterializzazione del nostro corpo – che ci dà il bucare il tempo e lo spazio. Tanto che il paesaggio davanti e ai lati della nostra auto ci sfugge non solo otticamente ma anche mentalmente. L’erotismo non viene più dai luoghi, dal paesaggio: ci si gonfia dentro.
Come unico freno a questa fuga dalla realtà verso un principio assoluto del piacere, c’è il rischio di un incidente. Sappiamo o quantomeno sentiamo che il nostro desiderio è omicida. Più che la nostra morte – tanto disumani e distratti ci rende il superomismo della nostra velocità egoista, assolutista e concentrazionaria – noi temiamo le conseguenze di un improvviso incidente a danno degli altri, dentro e fuori del nostro abitacolo. Questo timore di “far male” ci rende ( e comunque dovrebbe renderci) responsabili delle nostre azioni: quelle che si pretendono da un buon cittadino, da un agire virtuoso, urbano. E a questo punto ecco allora che una parte di noi si fa vigile. Vigilanza difficile da mantenere, se l’autostrada si apre davanti a noi interamente o quasi sgombra da altre auto, ma vigilanza che – quando dietro, accanto e davanti a noi ci sono molti nostri simili – prende il sopravvento, si fa autorità, e riesce a controllarci. Diventa comportamento sociale, roba da delitti e pene, sensi di colpa e affetti.
Ma ecco che questo acquisito punto di equilibrio tra desiderio e bisogno, tra superfluo e necessario – ammesso che si sia in grado di capirne il senso e raggiungerlo – si scontra ben presto con una straordinaria serie di ostacoli. Di forze contrarie. A minare il nostro senso di responsabilità, intervengono altre dinamiche di potere che non sono sotto il diretto controllo dei singoli, delle singole persone, ma sono il risultato “automatico” delle infinite interazioni – psicologiche, emotive, culturali, identitarie – tra tutti gli autostradisti in campo. Siamo uno ad uno dentro la collettività di flusso che percorre l’autostrada: a questo fine, non individuale ma collettivo, essa è stata costruita e “aperta”. A questo serve. Per questo la paghiamo come servizio pubblico. Eppure è proprio nel percorrerla che ci perdiamo. Che essa ci perde.
Ecco almeno due tra i fenomeni – sociali, come altro potremmo definirli, nonostante siano in tutto psicologici? – che intervengono a turbare anche le migliori intenzioni di essere individui responsabili della e nella comunità che abitiamo. Il primo riguarda le azioni di sorpasso: all’automobilista che, inseritosi nella corsia di sinistra, voglia tenere una velocità di sicurezza, rispettosa dei limiti imposti dalla segnaletica, capita spesso di vedersi arrivare addosso mostri meccanici ( spiccano i grandi suv più ancora delle supersportive) che non ti lasciano scelta: aumentare la velocità, anzi superare quella del veicolo che pretende la tua immediata scomparsa dalla corsia di sorpasso. Per arrivare a potere rientrare al punto giusto della fila di auto che viaggiano a destra, diventiamo noi stessi causa dell’alta velocità. Entriamo noi stessi nel novero dei cittadini da sorvegliare. Questa meccanica del sorpasso è una sorta di istigazione al delitto. Di pari istigazione vorrebbero godere gli impazienti che ti si affiancano e superano quando stai rallentando – cosa già difficile di suo – per imboccare il cancello dei caselli automatici. La spavalderia con cui questi ingordi soggetti ti danno del fesso per guadagnare qualche frazione di secondo rispetto alla tua regolare posizione, è massima espressione della stupidità che spesso resta l’unica motivazione di comportamenti incivili. Di prevaricazioni tra simili, di intemperanze che vengono da dentro della natura umana. Ma attenzione: gli attori in conflitto autostradale vivono di volta in volta il ruolo di vittima e di carnefice. Siamo tutti noi.
A voler tornare a citare, dovremmo ricordare Paul Virilio, maestro in questi temi “dromoscopici” ( magari riletto dal nostro caro amico scomparso Antonio Caronia). Gli esempi che ho appena fatto riguardano la velocizzazione dell’esperienza ( e non è stato necessario ricorrere alla responsabilità della tecnica, è bastato riflettere sulla mente e il corpo di chi guida l’auto: inibizioni, sospetti, rivalse, aggressività, protagonismo). Di segno opposto eppure analogo, quanto agli effetti che producono, sono anche i guidatori lenti e incapaci: quelli che intasano le corsie e così istigano alla trasgressione i malcapitati che se li trovano davanti. E infine i guidatori distratti: là dove l’incidente è in agguato ( molti di questi sono coperti da una bella patina estetica). Sono tutti la dimostrazione di quanto la inosservanza delle leggi e il vuoto di senso di responsabilità vadano affrontati a partire non solo dalla singola qualità delle persone. Dalle loro intenzioni. Persino dai loro risultati individuali. Nonché dalle catene di causa e effetto alle quali è impossibile sfuggire. Sulle quali è impossibile ragionare in termini di responsabilità. Difficile separare le parti di colpa che spettano a ciascuno per sé e per tutti. Certo è che la fenomenologia autostradale appena appena qui abbozzata si presta ad essere estesa ad ogni campo di vita di relazione: casa, ufficio, lavoro; istituzioni, partiti, organizzazioni. Tutti apparati in cui si corre per la sopravvivenza.