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Gli amici del college lo chiamavano «il lattaio» perché quando alla fine degli anni 90 loro trangugiavano pinte di birra nei pub di Boston lui sorseggiava impassibile il suo bicchiere di latte. «Sono sempre stato una persona noiosa, lo ammetto» ha confessato la scorsa settimana al Globe, dimostrando se non altro di possedere un discreto senso dell’umorismo.
Sarà proprio lui, il Joseph Patrick Kennedy III, un cognome che pesa come un macigno, a rispondere al Discorso sullo Stato dell’Unione del presidente Trump. Una vetrina inattesa per questo telegenico 37enne, rampollo della più leggendaria dinastia politica americana ma praticamente sconosciuto al grande pubblico. Lo scorso anno i democratici affidarono il compito all’ultrasettantenne governatore del Kentucky Steve Beshear, la scelta scontentò profondamente la base in rivolta contro i «vecchi coccodrilli» del partito. I più maligni insinuano che i dem, in crisi di leadership, si affidino a un Kennedy più per il nome prestigioso che per le sue effettive qualità, una specie di marchio buono per tutte le stagioni e che difficilmente riuscirà a rinverdire i fasti familiari come il nonno Bob e gli zii John Fritzgerald e Ted. Jospeph P vuole smentirli tutti e si perapara ad affrontare un passaggio cruciale per la sua carriera politica e forse per il futuro prossimo del suo paese. Se le cose andranno come lui si augura magari potrà ripercorrere le orme di tre suoi illustri predecessori hanno replicato al discorso del presidente: Gerald Ford, Bill Clinton e George. W. Bush, tutti poi approdati alla Casa Bianca. «È un politico di talento e un infaticabile difensore della causa dei lavoratori, non potevamo scegliere una figura migliore», giura Nancy Pelosi, leader dei democratici al Congresso.
Ma attenzione, lo scranno da cui pronuncerà le sue parole è un’arma doppio taglio e lui potrebbe anche fare la fine di Bob Jindal, il governatore repubblicano della Louisiana che nel 2009 replicò al discorso di Barack Obama con un speech talmente disastroso che lo fece diventare lo zimbello della rete. All’epoca Jindal aveva 37 anni, proprio come il giovane Kennedy, ed era considerato l’astro nascente della destra americana. Oggi è praticamente un disoccupato che collabora per un piccolo sito ultraconservatore specializzato in fake news. Stesso destino per il senatore della Florida Marco Rubio, Diplomato in diritto a Stantford, dopo gli studi parte per due anni nella Repubblica dominicana, arruolato nei Peace Corps, organizzazione umanitaria fondata dallo zio John Fritzgerald in quella che ha definito l’esperienza «più toccante» della sua vita. Tornato negli States si specializza a Harvard e diventa difensore degli inquilini a basso reddito minacciati di sfratto, una vera e propria piaga nell’America nel cui ventre lievitava la bolla dei mutui subprime che poi generò lo tsunami finanziario del 2008. Alle elezioni di mid- term del 2014 viene eletto alla camera come rappresentante del Massachussetts e svolge il suo mandato assumendo un profillo più che basso, nessuna intervista ai giornali, nessun intervento nei talk show televisivi, solo studio, lavoro e tanti bicchieri di latte.
È da qualche mese appena che gli americani hanno iniziato a conoscere le sua determinazione, in particolarenella difesa della riforma sanitaria di Barack Obama, più volte finita nel mirino dell’amministrazione Trump. Molti suoi interventi sono diventati virali in rete, accendendo la passione dei fan, il più celebre lo scontro con il capogruppo repubblicano al Congresso Paul Ryan che ha chiamato «atto di misericordia» lo smantellamento dell’Obamacare. «Non è è misericordia, ma pura malvagità signor Ryan», la replica di Joseph. Dopo quello scontro l’ex candidato alle primarie democratiche Howard Dean sentenziò: «Wow, è nata una stella, un Kennedy potrà di nuovo diventare presidente». Malgrado gli endorsement e gli entusiasmi più o meno indotti, l’ala più a sinistra del partito e vicina al liberal Bernie Sanders non si spella certo le mani per un giovane politico che guarda ai ceti medi e ai colletti bianchi, che non propone certo ricette radicali per riconquistare il favore degli elettori e che non ha il piglio del capopopolo. Ma viste le condizioni in cui versano i democratici, questo non sembra certo il momento politico per fare gli schifiltosi.
Il compito non è semplice, ma almeno la strada è tracciata. E come scriveva ieri Nestor Ramos editorialista del Boston Globe «Clinton replicò a Ronald Reagan, Joseph Kennedy dovrà replicare a Donald Trump, con tutto il rispetto il compito è senz’altro più agevole».