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"La vita di un lavoratore vale meno di un appalto". Il motto potrebbe essere questo o almeno questo è ciò che pensa Giovanni (nome di fantasia), lavoratore sui cantieri del Terzo Valico. A portarlo a tale conclusione la notizia - riportata da Repubblica - del rischio licenziamento per seicento operai, tecnici e ingegneri impegnati nei cantieri e ora bloccati nelle loro regioni dal decreto “Cura Italia”: non essendo rientrati in Liguria e Piemonte per via della quarantena preventiva messa in atto dalle regioni, Cociv, Consorzio collegamenti integrati veloci, general contractor dell’opera per conto di Rfi, ha diffidato le rispettive imprese a riaprire i cantieri, pena le rescissione dei contratti. Insomma, un modo per far ricadere le conseguenze economiche di un eventuale stop ai lavori proprio sull’anello più debole della catena: i lavoratori. «Sono decenni che si scava in queste gallerie - sottolinea Giovanni -, due mesi di ritardo sono così gravi? Si tratta, per la maggior parte, di famiglie monoreddito, che non hanno altre entrate. Le conseguenze di tutto ciò vengono fatte pagare proprio a coloro che svolgono il lavoro più duro e che hanno più bisogno di aiuto in questo momento». I cantieri, spiega , sono fermi dsall'inizio della settimana. E Rfi ne chiede la riapertura, sfruttando una delle falle del decreto emanato dal governo l’11 marzo: «non è prevista una chiusura dei cantieri e così Cociv ha inoltrato la richiesta di Rfi alle imprese». In questo momento sono diverse le ditte impegnate nei subappalti e dislocate su circa 35 chilometri di gallerie. Il che significa decine e decine di lavoratori impiegati in tre turni giornalieri da otto ore, costretti - o almeno così vorrebbe Rfi - a rientrare da tutta Italia per riprendere il lavoro. Stando al decreto, «i lavoratori impiegati nei cantieri, non potendo usufruire, per ovvie ragioni, del lavoro agile, quale modalità ordinaria di svolgimento dell’attività lavorativa, sono sempre autorizzati allo spostamento dalla propria residenza/domicilio alla sede del cantiere e viceversa, anche quando questa sia situata presso una regione diversa da quella di residenza/domicilio». Tanto basta per ignorare il rischio per la salute dei lavoratori. «Perché se tutti i giorni ci dicono di rimanere a casa il cantiere non può aspettare?», si chiede ancora Giovanni. La maggior parte dei lavoratori viene dal Sud Italia e per tornare in cantiere dovrebbe affrontare un viaggio di ore, su autobus, treni o aerei. Il tutto violando l’obbligo imposto dalle Regioni di rimanere in autoisolamento per almeno 14 giorni dopo il rientro dal Nord. «La loro è una vita disagoata - aggiunge Giovanni -: vivono in dei container, mangiano tutti insieme a mensa, arrivano al cantiere con i furgoni. È vero, ti dicono di limitare gli assembramenti e di mantenere le distanze, ma può succedere di tutto». È difficile, infatti, immaginare che svolgendo un lavoro del genere sia possibile evitare contatti, anche in virtù dell’assenza, in tutta Italia, di dispositivi di protezione previsti dalla normativa sul Coronavirus. E inoltre il blocco dei cantieri dipende anche da altro: le limitazioni imposte dal governo hanno fatto venir meno molte forniture indispensabili nei cantieri, come ferro, calcestruzzo, acciaio, denunciano i sindacati. Per i lavoratori, però, il decreto è chiaro: «nell’ipotesi in cui un lavoratore impiegato in un cantiere, rientrato nel luogo di propria residenza/domicilio per la fruizione di un periodo di congedo o riposo, decida di non tornare presso la sede del cantiere senza che sussista alcun impedimento di carattere sanitario, debitamente certificato, tale decisione dovrà considerasi quale autonoma scelta del lavoratore che, seppure dettata da comprensibile preoccupazione per il pericolo di contagio, sarà valutata dall’impresa appaltatrice alla luce delle disposizioni contrattuali». Insomma o si è malati o si torna in cantiere. A protestare sono i sindacati di categoria, che ieri hanno sottoscritto un protocollo tra Mit, Anas, Rfi, Ance Confindustria e FenealUil, Filca Cisl e Fillea Cgil nel quale sono state indicate le prescrizioni sanitarie per i cantieri. «Il messaggio è chiaro - affermano in una nota Vito Panzarella, Franco Turri, Alessandro Genovesi, Segretari Generali di FenealUil, Filca Cisl e Fillea Cgil -, i cantieri possono rimanere aperti solo rispettando tutte le indicazioni di profilassi che, in un cantiere, vogliono dire tante cose. Dai trasporti per raggiungerli, alle mense, all’uso di macchinari e strumenti, alle diverse lavorazioni. Occorre mettere la sicurezza e la salute dei lavoratori sempre al prima posto: qualora nei cantieri l’organizzazione del lavoro attuale non permetta di applicare quanto previsto dal protocollo, a partire dalla disponibilità di Dpi, bisogna che le aziende si attrezzino e occorre ricorrere agli ammortizzatori per il tempo necessario a garantire il lavoro in sicurezza, senza se e senza ma. Da qui l’importanza del protocollo – concludono Panzarella, Turri, Genovesi - che riconosce un grande ruolo alle organizzazioni sindacali, al sistema bilaterale edile, alle Rsu e agli Rsl/Rlst che vigileranno affinché le imprese facciano la propria parte e il lavoro sia svolto in totale sicurezza verificando l’applicazione dell’intesa stessa e assistendo i lavoratori sia in cantiere che, eventualmente, nelle momentanee sospensioni dei lavori, attraverso la Cigo».Turri, nei giorni scorsi, aveva lanciato un grido d’allarme. «Davvero c’è tutta questa smania di riaprire cantieri fermi per mesi, per anni? O di far partire opere che aspettano la prima posa da tempo immemorabile? E quanto può influire un ritardo di due, tre mesi sui tempi di realizzazione di una grande opera, che sappiamo essere, in media, di 15 anni? La risposta a queste domande l’abbiamo già. Travolti da questa emergenza sanitaria, sociale, umana, economica, possiamo serenamente asserire che i cantieri possono aspettare qualche settimana».