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Correva l’anno 1968 quando le città universitarie italiane furono investite dall’uragano della contestazione studentesca. A Roma, in aprile, gli studenti avevano reagito alle cariche della polizia. E fu la “battaglia” di Valle Giulia. Seguita pochi giorni dopo, in piazza Cavour, dalla rivincita dei poliziotti, che effettuarono una dura carica durante una manifestazione, colpendo indiscriminatamente chi si trovava a portata di manganello e di calcio di moschetto. A l’Astrolabio, il settimanale fondato da Ernesto Rossi e diretto da Ferruccio Parri, seguivamo gli eventi con interesse e partecipazione. E pensammo di intervistare Umberto Terracini. Chi meglio di lui, comunista eterodosso e dall’assoluta libertà di giudizio? Eravamo convinti che non avrebbe sposato la cautela del Pci nel seguire l’evolversi del movimento studentesco in Italia e in tutta Europa, che non sarebbe stato insensibile, lui, vecchio rivoluzionario, alle posizioni “barricadere” degli studenti, alla loro pratica di una democrazia diretta. Chi ci va? Proprio in quei giorni era ritornato dalla Francia Giampiero Mughini, dopo avere partecipato alle manifestazioni del maggio studentesco e disselciato dalle strade parigine la sua porzione di pavé. Era un collaboratore del giornale e si trovava con noi in redazione quando decidemmo di chiedere l’intervista. È la persona più indicata, pensammo.
Tuttavia, c’era un problema. Rispondendo alla nostra telefonata, Terracini ci aveva detto che era disponibile subito. Ma Mughini indossava una vistosa camicia a fiori, un pantalone a zampa d’elefante e scarpe da tennis. Impossibile farlo andare in quelle condizioni. Ognuno di noi si tolse di dosso qualcosa, giacca, camicia, pantaloni, cravatta, scarpe, e lo vestimmo di tutto punto. Andò all’appuntamento. E dovette fare i conti, anzitutto, con un singolare rituale. Quando riceveva un ospite nel suo studio di ex presidente dell’Assemblea Costituente, Terracini faceva accomodare l’ospite in una capiente poltrona di pelle e lui si sedeva su uno sgabelletto di legno. Se andavi a trovarlo per la prima volta, l’ope- razione ti lasciava di stucco. Provavi ad alzarti, a protestare. Ma lui, inflessibile, ti rimetteva giù. «Questa è la regola», diceva. E si parlava.
Mughini cominciò con le domande. E Terracini, dal suo sgabelletto, lo gelò. Che cosa pensava della contestazione studentesca, dei moti che dai Campus americani si erano rapidamente estesi in tutta Europa, in Francia, in Germania e ora in Italia? «Chi frequenta una scuola secondaria o un’Università», rispose Terracini, «si definisce studente proprio perché il suo compito prioritario è quello di studiare: È questo che deve fare. Se, poi, vuole occuparsi anche di politica, fa bene a farlo. Si iscriva a un partito. In un paese democratico non mancano certo le occasioni per far politica». Ma le loro idee? «Proprio perché sono impegnati dallo studio ad una conoscenza panoramica ma superficiale dell’intero scibile, gli studenti sono predisposti per acerbità della loro mente, più ricettiva che elaboratrice e critica, a recepire in ibrida commistione, che spesso è semplicemente confusione, le più svariate concezioni filosofiche con le corrispettive appendici sociali e politiche». La democrazia diretta, le assemblee che decidono tutto? «Fandonie. La democrazia non può che essere rappresentativa». Risposte quanto mai controcorrente rispetto al vezzo allora imperante nella sinistra italiana di adulare la gioventù sessantottina e di fare proprie, anche se con molta cautela, le motivazioni della rivolta studentesca.
Ma controcorrente Terracini aveva sempre navigato, pagando spesso di persona, tutte le volte che la coscienza gli aveva imposto di farlo. Poco più che ventenne è nella direzione del partito socialista. Nel gennaio del 1921, nel congresso di Livorno, la corrente massimalista, guidata da Bordiga, Tasca, Gramsci, Togliatti e Terracini, si scinde dall’ala riformista, guidata da Filippo Turati, e fonda il partito comunista. E nello stesso 1921, pochi mesi dopo, al terzo congresso dell’Internazionale comunista, che si svolse a Mosca dal 22 giugno al 12 luglio, Terracini da una prima convincente prova del suo anticonformismo. È un episodio che vale la pena di raccontare. Nei quindici mesi precedenti erano successe tante cose. La neonata Russia sovietica era stata investita da una forte carestia e da un’ondata di scioperi. In marzo era avvenuta la rivolta libertaria dei marinai della base navale di Kronstadt, non lontano da San Pietroburgo, che Lenin e Trockij avevano represso con le armi. Nel 1920 Lenin aveva scritto “L’estremismo malattia infantile del comunismo” e l’aveva distribuito ai partecipanti del secondo congresso dell’Internazionale, alcuni dei quali erano citati nel testo. Pochi mesi prima in Germania era stata stroncata un’azione rivoluzionaria dei comunisti, guidata da Bela Kun.
Ce n’era d’avanzo perché i sovietici si presentassero al terzo congresso con una piattaforma moderata, di netto rigetto delle fughe a sinistra. Nella relazione introduttiva, Trockij condannò nettamente l’estremismo, senza escludere la possibilità di un dialogo temporaneo con forze riformiste. Sulla stessa linea, l’intervento di Zinoviev e il documento conclusivo stilato da Radek. A questo punto il congresso sembrava concluso. Chi avrebbe osato opporsi alle tesi della dirigenza sovietica? Ma, quando giunse il suo turno, Terracini salì alla tribuna e pronunciò un duro e appassionato intervento che faceva a pugni con la linea morbida dei sovietici. «La Terza Internazionale», disse, «deve ancora combattere una grande battaglia contro le tendenze di destra, contro le tendenze centriste, semicentriste e opportuniste… È una lotta che ci sta ancora dinanzi in tutta la sua grandezza». Mentre parla ha un vivace battibecco con Trockij. «Il compagno Trockij scuote la testa: sembrerebbe che non creda a quello che sto dicendo». «Non mi riferisco soltanto a quello che stai dicendo in questo momento». «L’ho ben intuito. Posso tuttavia dire con certezza che la mia affermazione corrisponde al vero stato d’animo del proletariato italiano». Dopo Terracini è Lenin a prendere la parola. Conclude il dibattito invitando i congressisti a votare la risoluzione presentata dai sovietici. Polemizza garbatamente con Terracini. Prima di salire sul palco aveva incrociato il delegato italiano che ne discendeva. Gli aveva poggiato sorridendo una mano sulla spalla e gli aveva mormorato: “Plus de souplesse, camerade Terracini, plus de souplesse”.
Ma è ancora niente. Nella seconda metà degli anni Venti, Terracini è un dirigente comunista affermato, maturo. Affascina compagni ed avversari con il rigore della sua logica, la sua passione, la cultura e l’intelligenza che traspaiono ad ogni frase, il suo freddo umorismo. Non è più l’estremista che si contrappose a Lenin. Ma è sempre un bastian contrario. È arrestato nel settembre del 1926, processato due anni dopo insieme con Antonio Gramsci, e condannato a 22 anni e 9 mesi di carcere. Chiede di parlare dopo la requisitoria del pubblico ministero e dichiara di fare sue, «integralmente, le conclusioni del pubblico accusatore». Perché, sostiene, se il piccolo partito comunista può «porre in pericolo grave e imminente lo Stato forte, lo Stato difeso, lo Stato armatissimo», allora questo Stato, questo regime, sono castelli di carta. Nel 1929 Stalin lancia la teoria del “socialfascismo”, afferma, cioè che la socialdemocrazia europea, ormai, debba identificarsi con il fascismo e vada per questo combattuta come un nemico. I comunisti di tutto il mondo, italiani compresi, si adeguano. Tranne pochissimi. E tra questi è Terracini. È in carcere da quattro anni, ma, come tutti i comunisti in carcere ( trasformata in scuola di partito) è informatissimo. Scrive una lunga lettera a Togliatti. Ed è esplicito: «Non credo alla sottomissione dei gruppi aventiniani fuorusciti e della socialdemocrazia al fascismo, ad un loro accordo, alleanza, o comunque contatto». Ancora: «Il partito riuscirà solo a rendersi incomprensibile alle masse e quindi ad allontanarle; esse, a tutte le nostre previsioni sugli accordi tra socialdemocrazia e fascismo, risponderanno con una sola parola, “MATTEOTTI”, cui noi nulla avremmo di concreto da contrapporre». Dato il periodo, ce n’era più che a sufficienza per un’espulsione dal partito comunista. Ma non si può. Non ancora. Terracini era Terracini, il compagno di Gramsci. Sono espulsi, per lo stesso motivo Ignazio Silone e la cosiddetta “banda dei tre””, composta da Leonetti, Tresso e Ravazzoli. L’espulsione arriva, ma dieci anni dopo, quando, dopo avere scontato undici anni di carcere, il dirigente comunista è confinato nell’isola di Ventotene. Colpisce lui e Camilla Ravera, la “maestrina” che nel 1921 era stata tra i fondatori del Partito comunista d’Italia, occupandosi a lungo dell’organizzazione femminile. Anche la Ravera era stata accusata nel 1929 di frazionismo, ma era stata per il momento risparmiata, come Terracini. La loro colpa? Duplice. Anzitutto si oppongono con decisione al trattato d’alleanza germanosovietico del 1939, lo scellerato patto Molotov- Ribbentrop, che nasceva dalla tesi di Stalin che i primi nemici da abbattere fossero i paesi capitalistici. E poi rifiutano con altrettanta decisione la delimitazione dell’antifascismo alle sole forze del fronte popolare, cioè comunisti e socialisti. «Avevo dato», ricorda Terracini, «un’interpretazione estensiva al manifesto- appello lanciato dal partito subito dopo l’aggressione nazista all’Urss per un’alleanza di tutte le forze antifasciste. Secondo i dirigenti del confino, tale direttiva doveva valere solo nei confronti di quei partiti che potessero muoversi nell’ambito del fronte. Secondo me, l’appello era invece rivolto a tutte le forze e a tutti i partiti che fossero disposti a combattere il fascismo, non esclusi, quindi, i liberali, i conservatori, i monarchici». Sarà la posizione di Togliatti, ma soltanto nel 1944, quando anche Stalin capirà che la politica dei fronti popolari è fallimentare nella lotta antifascista.
I comunisti a Ventotene non familiarizzano con gli altri confinati, si tengono lontani perfino da personaggi come Rossi, Spinelli e Colorni, gli autori del manifesto europeista, sono chiusi nel loro settarismo E sono loro, guidati da Mauro Scoccimarro e da Pietro Secchia. a decretare l’espulsione di Terracini e della Ravera da quel partito che l’uno e l’altra avevano fondato nel 1921. Da quel momento, a Ventotene, Terracini è ancora più isolato. Per riprendere la sua libertà d’azione deve aspettare i giorni della liberazione dal confino. E nel 1943 scrive dalla Svizzera a Togliatti: «La decisione dell’espulsione deve essere considerata nulla e mi si deve mettere in condizione di riassumere senza ritardo un posto di lotta nelle fila del partito». Togliatti aspetterà più di un anno per riammettere nel Pci il vecchio combattente. Quando Terracini arriva a Roma, dopo un periodo trascorso nella repubblica partigiana dell’Ossola, il segretario lo riceve nella sede del Pci. Alza dopo un pò lo sguardo dalle sue carte. Gli dice soltanto: «Ah, sei qui?». E lo incarica di occuparsi della Costituente.
Per Terracini comincia una nuova vita. Eletto all’Assemblea Costituente, ne diventa presidente dopo le dimissioni di Saragat, Ed è lui, in questa veste, a firmare la Costituzione italiana. Negli anni seguenti sarà uno dei maggiori e più stimati dirigenti del Pci, ma non smetterà di pensare con la sua testa. È l’unico, nella classe dirigente comunista, a schierarsi contro il “compromesso storico” di Berlinguer; ebreo, sostiene e difende lo Stato d’Israele contro gli ultras filopalestinesi; è un amico convinto dei radicali – da sempre malvisti dai comunisti - e partecipa con loro, nella Pasqua del 1983, alla “marcia contro lo sterminio per fame nel mondo”, partita da Porta Pia e conclusa in Vaticano: Terracini muore a Roma il 6 dicembre del 1983, all’età di 88 anni. Poco tempo prima effettua l’ultima e la più importante delle sue sterzate controcorrente. Lui, che era stato tra i promotori della scissione di Livorno, afferma lapidariamente: «Aveva ragione Turati». Sensazionale. Se aveva ragione il vecchio leader socialista, avevano torto lui, Gramsci, Togliatti, Bordiga, Tasca, e il partito comunista non sarebbe dovuto nascere. La frase è abbastanza chiara, ma avrei voluto saperne di più. Telefono a casa. Mi risponde la moglie: «Umberto sta male. Per ora non può. Riprovi quando starà meglio». Non faccio in tempo. Mentre sono in redazione, a “Il Messaggero”, le agenzie di stampa battono la notizia della sua morte.