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Sarei umanamente e professionalmente grato a Luigi Di Maio, ma anche a Matteo Salvini, se evitassero di applicare alla Rai, dopo le nomine effettuate dal Consiglio di Amministrazione dell’era gialloverde, la stessa denominazione data all’accidentata manovra finanziaria del loro governo.
Non siamo approdati alla Rai “del popolo”, come si è detto appunto della manovra, dalla Rai ' dei partiti', come l’azienda radiotelevisiva di Stato è stata definita, a torto o ragione, nella lunga stagione della lottizzazione. Così la chiamò all’esordio l’indimenticato e indimenticabile Alberto Ronckey. Che da ' ingegnere' - come l’aveva definito con affettuosa ironia sull’Unità Fortebraccio quando ancora Alberto dirigeva La Stampa, lacerandosi ogni notte davanti agli errori che scopriva leggendone le prime copie - ad ogni sfornata di nomine nel palazzone di viale Mazzini sapeva distinguerne il colore politico: un precursore, nel campo dell’informazione radiotelevisiva, di Massimiliano Cencelli. Il cui ' manuale' fu adottato dalle correnti della Dc per distribuirsi le cariche, di partito e di governo e sottogoverno dopo ogni congresso o crisi ministeriale. Ronckey, in verità, commentava le nomine dall’alto, in editoriali dove non faceva nomi. Ma parlandone con lui, mi resi conto che conosceva quel mondo a menadito.
Se poi Di Maio avrà trovato la disinvoltura di parlare di “Rai del popolo” dopo che avrò finito di scrivere queste righe, me ne farò una ragione. Ma il popolo non c’entra per nulla, è chiaro. Siamo rimasti alla Rai dei partiti, in una versione tuttavia peggiorata rispetto al passato, recente e non. Siamo approdati alla Rai del governo, perché accordo, spartizione e quant’altro sono stati raggiunti fra i soli partiti della maggioranza, almeno a livello dei telegiornali, perché una traccia di opposizione si trova solo alla direzione della radio, dove è stato trasferito Luca Mazzà, il direttore uscente del Tg3, l’ex lontano Telekabul di Alessandro Curzi.
Non si era mai visto, francamente, nulla di simile, forse neppure ai tempi della Rai del pur storico direttore generale Ettore Bernabei, l’uomo di fiducia di Amintore Fanfa- ni. Sotto la cui ferma regìa il cosiddetto pluralismo nel settore dell’informazione si esauriva nel perimetro della Dc, ma con poche - debbo aggiungere- e fortunate eccezioni professionali a sinistra dello scudo crociato, mai comunque a livello direttivo.
Le forme saranno pure state salvate, con le nomine proposte formalmente al Consiglio dall’amministratore delegato Fabrizio Salini, ma non sono state per niente salvate nelle trattative fra i due soli partiti che si sono arrogati il ruolo di “editori di riferimento” dei telegiornali. Così una volta scappò di dire con onestà a Bruno Vespa parlando del tg 1 che dirigeva e della Dc che ve lo aveva mandato premiandone, per carità, le indubbie doti e competenze professionali. Di cui egli dà ancora prova nel salotto televisivo di Porta a Porta, promosso da Giulio Andreotti a “terza Camera”, dopo quelle decisamente più affollate di Montecitorio e di Palazzo Madama.
Con i tempi che corrono, e con la conoscenza che ho della Rai, non foss’altro per avervi per qualche anno collaborato, apprezzandone il personale molto più di quanto abbia mostrato anche di recente Di Maio parlandone come di una folla di “raccomandati” e “parassiti”, temo di dover rimpiangere la vecchia lottizzazione. Che ha regalato al pubblico, almeno per i miei gusti, e grazie proprio alla presenza dell’opposizione, la terza rete di Angelo Guglielmi.
D’altronde, mi è già accaduto di fronte alle convulsioni del Pd, dove il cosiddetto fuoco amico è superiore spesso a quello del nemico, di rimpiangere il “centralismo democratico” di memoria togliattiana.
Nonostante queste premesse, vorrei fare gli auguri di buon lavoro ai nuovi direttori dei telegiornali della Rai: Giuseppe Carboni al Tg1, Gennaro Sangiuliano al Tg 2, Giuseppina Paterniti al Tg 3 e Alessandro Casarin ai telegiornali regionali.
Pur nominati nel peggiore o più vecchio dei modi, come preferite, essi meritano il credito che impone la loro professione. Sono sicuro che una cartolina di auguri gliel’avrebbe mandata anche il mio vecchio amico e compianto Andrea Barbato.
Il loro successo dipenderà dalla misura in cui sapranno affrancarsi dal bicolore gialloverde che le circostanze, diciamo così, hanno voluto che li selezionasse. Voglio ignorare le diverse tonalità del gialloverde con cui sono stati descritti nella cronache delle trattative politiche che hanno preceduto la loro nomina per rendere i miei auguri non di circostanza, ma autentici.