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DONALD TRUMP PRESIDENTE USA
Passato l’occhio del ciclone, che ha dato alle borse mondiali qualche ora di calma apparente, forti turbolenze sono tornate a spazzare i mercati azionari. Milano ha chiuso a -2,75%, Francoforte a -3%, Parigi a -3,34% e Londra a -2,92%.
Trump è intervenuto ieri sera all’assemblea del Comitato nazionale repubblicano del Congresso (Nrcc), che per toni e parole utilizzate assomigliava più a una riunione tra commerciali di un’azienda. «Facciamo, grazie ai dazi, due miliardi di dollari al giorno. Inoltre molti paesi vengono a trovarci, vogliono fare un accordo», ha dichiarato il presidente Usa, «so bene cosa diavolo sto facendo, lo so. Questi paesi ci chiamano e mi baciano il culo. Muoiono dalla voglia di fare un accordo. “Per favore, per favore, troviamo un accordo, faremo qualsiasi cosa signore”».
Jamie Dimon, a.d. di JPMorgan, non condivide lo stesso entusiasmo di Trump, e mette in guardia da una possibile recessione dell’economia globale, generata dalla nuova politica doganale statunitense. Tra i paesi che fanno squillare i telefoni della Casa Bianca di certo non c’è la Cina, che ha risposto all’inasprimento delle misure doganali statunitensi aumentando le tariffe di risposta dal 34 all’84%. Difficile pensare che Xi Jinping vada col cappello in mano a chiedere sconti a Trump o che muoia dalla voglia di farlo.
Intanto si cominciano a vedere i primi effetti prodotti dallo scontro commerciale tra le due potenze, oltre a quelli sui mercati. Pechino ha emesso un’allerta diretta ai turisti cinesi che intendono fare un viaggio negli Usa. Il ministero della Cultura e del Turismo ha citato il «deterioramento delle relazioni economiche e commerciali tra Cina e Stati Uniti e la situazione della sicurezza interna negli Stati Uniti» per invitare i cittadini a valutare i rischi di un viaggio negli Usa e ad usare cautela per quelli già presenti sul territorio statunitense.
Dal punto di vista commerciale, secondo quanto riportato da Bloomberg, Amazon avrebbe cancellato diversi ordini di beni prodotti nella Repubblica popolare per ridurre l’esposizione ai dazi d’ingresso negli Usa. Il Segretario al Tesoro Usa, Scott Bessent, ha messo in guardia i paesi destinatari dei dazi sul trovare accordi commerciali con Pechino che, per riprendere la metafora usata da Bessent, equivarrebbe a «tagliarsi la gola». Il Segretario ha poi lanciato un monito a coloro che stanno pensando all’adozione di tariffe ritorsive: «Penso che quello che molti non capiscono è che i livelli stabiliti mercoledì scorso rappresentano un limite massimo se non si reagisce».
Intimidazione che pare non aver turbato Christine Lagarde, presidente della Bce, che ha incontrato a Francoforte Zhou You, direttore generale del dipartimento Affari internazionali della Banca popolare di Cina in «un meeting regolare, parte del dialogo in corso fra le nostre istituzioni», come descritto da Lagarde.
L’Ue sembrerebbe trovarsi ora di fronte a un trivio: adattarsi e negoziare senza assumere contromisure, applicare a sua volta barriere doganali o applicare misure mirate e proporzionate, mentre si tenta la via negoziale. Bruxelles sembra aver optato per quest’ultima via. Ieri è stato raggiunto un accordo tra i 27 paesi membri, che hanno votato a favore dei tre pacchetti di contro dazi, il primo entrerà in vigore dal 15 aprile, il secondo dal 15 maggio e il terzo dal primo dicembre. Questi prevedono l’attuazione di tariffe al 25% e al 10% da parte dei paesi membri sui beni Usa.
L’unico voto contrario è stato quello dell’Ungheria, annunciato, senza destare troppa sorpresa, nella mattinata di ieri dal portavoce del governo magiaro, Zoltan Kovac. In linea con l’orientamento assunto, la Commissione ha emesso una nota a seguito dell’esito della votazione, in cui specifica che i dazi di ritorsione «possono essere sospesi in qualsiasi momento, qualora gli Stati Uniti accettino una soluzione negoziata equa ed equilibrata». Va ricordato che negli scorsi giorni la Commissione ha offerto agli Usa il libero scambio sui prodotti industriali, ricevendo un primo diniego da parte del presidente Trump.
Nonostante l’apparente ritrovata unità europea dall’oltralpe si alzano malumori e preoccupazioni per la missione negoziale di Meloni del 17 aprile. Il ministro dell’Industria francese, Marc Ferracci, ai microfoni di franceinfo, ha sollevato dubbi sui sentimenti unitari della presidente del consiglio, temendo forse che più che ponte tra Usa e Ue, Meloni possa essere una testa di ponte Usa nel vecchio continente. Pronta la replica del ministro per gli Affari Europei, Tommaso Foti: «come mai quando il presidente Macron si reca a Washington tutto sembra andare bene, mentre quando è la Meloni ad andare, invece no? Rispetto e reciprocità, cari amici francesi».