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Rapimento vuol dire polemica. Inevitabile se si tratta di operatori o peggio operatrici umanitarie: che ci sono andate a fare?
Persino chi finge di difendere l'ultima della serie, Silvia Romano, si abbandona a una trivialità semantica tanto imperdonabile quanto eloquente e parla di «smanie d'altruismo» salvo poi raccomandare un occhio di riguardo dovuto all'età immatura che implica «energia pura, ingenua e un po' folle».
Frequente quando i sequestrati sono giornalisti: gli imprudenti cacciano scoop e “noi” paghiamo. Il concetto è stato esplicitato con dovizia di argomentazioni da Luca Ricolfi, ieri sul Messaggero:
chi rischia la pelle per altruismo danneggia anche te, dal momento che a pagare l'eventuale riscattto saremo “noi”, i contribuenti, e anche qualora non si dovessero sborsare dollari sonanti sempre qualcosa bisognerebbe concedere a danno dell'interesse nazionale. Insomma, “nostro” e se ne deduce che l'unico altruismo sano è quello che se ne resta a casa senza rompere a nessuno i cosiddetti.
Spesso, nella lunga catena di sequestri sempre drammatici e a volte tragici, le polemiche sono se non giuste almeno giustificate. In altri casi si tratta invece di un'invitta propensione agli umori da avvoltoi e sciacalli.
Il primo sequestro del nuovo millennio, quello dei quattro contractors italiani rapiti il 13 aprile 2004 in Iraq, sulla strada da Baghdad ad Amman, dalle milizie saddamiste, provocò levate si scudi soprattutto a sinistra. Non erano inermi cooperanti quelli ma mercenari. Sapevano quello che facevano andando in guerra. Uno dei quattro, Fabrizio Quattrocchi, fu ucciso il giorno dopo e un video raccapricciante ne immortalò la fine, il tentativo di strapparsi la benda dagli occhi, la frase «Vi faccio vedere come muore un italiano».
Animati da generosità empatica molti si storsero per quella frase di stampo fascistoide, trovando il particolare molto più rilevante dell'uccisione del malcapitato. Ci sono mille modi di essere sciacalli e quello fu uno dei più abietti.
La partita sulla pelle dei tre sopravvissuti si prolungò per 56 giorni, fu gestita soprattutto dalla Emergency di Gino Strada, comportò l'apertura di un convoglio umanitario per la popolazione stremata di Falluja, roccaforte saddamista, e persino l'ordine di manifestare contro la guerra. Alla fine i tre tornarono liberi l' 8 giugno. La salma di Quattrocchi era stata restituita una ventina di giorni prima.
Nel caso di Enzo Baldoni, giornalista, copywriter, pacifista, lo sciacallaggio raggiunse dimensioni inaudite, anche perché agli ululati a mezzo stampa si unì una metodica campagna di false informazioni messa in opera dai servizi segreti, o meglio da quella cordata del Sismi guidato da Nicola Pollari della quale faceva parte Pio Pompa, “gli americani”, contrapposti alla corrente fedele alla tradizionale politica italiana di Nicola Calipari.
Baldoni, un free lance, aveva convinto di persona il capo missione della Croce Rossa a Baghdad a organizzare un convoglio per portare aiuti alla popolazione di Najaf, sotto assedio americano.
La colonna fu attaccata, il 20 agosto 2004 L'autista del giornalista rimase ucciso. Baldoni fu sequestrato. Il commissario della Cri italiana Maurizio Scelli affermò che tutto faceva pensare che fosse in giro alla ricerca di “uno di quegli scoop che ama tanto”. Feltri gli dedicò un titolo intriso di simpatia: “Vacanze intelligenti”. Quando arrivò la notizia, non suffragata da immagini, dell'avvenuta esecuzione, il Sismi fece circolare la notizia di un video, in realtà inesistente, nel quale si sarebbe visto il free lance affrontare da solo i rapitori armati, giusto per farsi ammazzare senza remore. Non sta mica ai giornalisti e ai pacifisti impicciarsi della sorte degli assediati!
Baldoni fu ucciso il 26 agosto. I resti furono restituiti alla famiglia dopo 6 anni.
Le “due Simone”, Parri e Torretta, giovanissime, furono rapite poco dopo nella sede della Onlus per cui lavoravano “Ponte per...” a Baghdad.
L'irruzione negli uffici diede luogo a una quantità di voci sull'anomalo sequestro. La ragazze rimasero nelle mani dei sequestratori 19 giorni: i racconti e i presunti retroscena piccanti che fiorirono in quelle quasi tre settimane avrebbero lasciato Boccaccio sbalordito. Regista della liberazione, in cambio di un riscatto, fu in larga misura Calipari ma il merito se lo prese tutto Scelli, allora animato da ambizioni politiche, con tanto di video della liberazione col capo della Cri italiane ad accoglierle. A uso dei futuri elettori.
Giuliana Sgrena, giornalista del manifesto, un'imprudenza la commise davvero, per sua stessa ammissione. Si trattenne troppo a lungo in una moschea dove cercava testimonianze vere, non “embedded”, dei sopravvissuti al terribile assedio di Falluja.
Rapita il 4 febbraio fu liberata il mese dopo. L'uomo che l'aveva liberata, Nicola Calipari, fu ucciso da una pattuglia americana mentre l'auto correva verso l'aeroporto per riportare la cronista a casa. La verità su quella tragedia non la si saprà mai. Probabilmente non ci fu una decisione a freddo di aprire il fuoco sull'auto di Calipari e Sgrena ma di certo gli americani, che cercavano di impedire le trattative in caso di sequestri, e l'ala del Sismi più vicina a Washington, fecero il possibile e anche di più per complicare e rallentare e rendere quanto più pericolosa possibile la liberazione. Raggiunsero lo scopo e naturalmente abbondarono i rapaci decisi ad addossare alla giornalista la responsabilità della morte di Calipari.
Fosse stata emebdded pure lei e non succedeva niente. Ma si sa che le “smanie informative” son quasi peggio di quelle “d'altruismo”.
Sergio Cicala e la moglie, Philomene Kabouré, furono rapiti in Mauritania, il 17 dicembre 2009. Erano in viaggio per il Bourkina Fasou e a prenderli fu una banda di predoni che poi li vendette a un gruppo vicino ad al- Qaeda, nelle cui mani erano anche anche un cooperante francese e tre spagnole. Gli adepti di bin Laden chiedevano la liberazione di terroristi islamici detenuti in Mali e Mauritania. La coppia italiana rimase ostaggio degli islamici per quattro mesi, tra ultimatum e minacce di esecuzione fino a che il 27 marzo la Mauritania non annunciò di aver “sgominato” la cellula. Ma perché i due italiani tornassero liberi ci volle ancora tempo, sino al 17 aprile e l'intera vicenda è tra quelle rimaste maggiormente coperte da una inusuale discrezione.
Il giornalista della Stampa Domenico Quirico gode a modo suo di un primato: è stato rapito due volte, la prima in Libia, nel 2011, la seconda in Siria, nel 2013. Il primo sequestro fu una faccenda lampo, appena due giorni. Il secondo, nell'aprile 2013 a opera dei jihadisti sul punto di dar vita all'Isis. Rimase nelle loro mani, con il collega e studioso belga Pierre Piccinin da Prata 152 giorni. Quella dei due sequestrati fu una vera odissea, spostati più volte da un capo all'altro della Siria, spesso sotto i bombardamenti. Quirico fu anche vittima di due finte esecuzioni, una tortura raffinata. Una volta tornati in libertà hanno raccontato la loro drammatica vicenda, fortunatamente a lieto fine, in un libro, Il paese del male.
Col tempo i sequestri sono diventati più lunghi e meno esposti alla luce dei riflettori mediatici, rispetto ai sequestri della guerra irachena, che tennero banco sulle prime pagine per settimane. Francesco Azzarà, di Emergency, rimase ostaggio dei ribelli del Darfur per 124 giorni.
Molto più lunga la detenzione di Bruno Pellizzari, italo- sudafricano, skipper catturato con la findanzata dagli shebab somali al largo della Tanzania, in barca a vela. Lo salvarono con un blitz le forze armate somale, ma dopo un anno e mezzo di prigionia.
Il rapimento della cooperatrice italiana Rossella Urru e di due suoi colleghi spagnoli, nella notte tra il 22 e il 23 ottobre 2011 in un campo profughi nel deserto algerino aveva un doppio obiettivo. La richiesta di riscatto in denaro fu immediata ma probabilmente i rapitori miravano anche a terrorizzare le organizzazioni umanitarie che prestavano soccorso ai profughi saharawi. Per la Urru si mobilitarono in Italia una quantità di donne e uomini di spettacolo, da Fiorello a Geppi Cucciari che dedicò ai sequestrati l'ultima sera del festival di Sanremo. Una delle poche occasioni in cui lo sciacallaggio non ebbe la meglio.
Le polemiche sono andate oltre il chiacchiericcio mediatico, approdando in tribunale, nel sequestro forse più tragico, quello di quattro operai della Bonatti in Libia, a Failla, nel 2016. I quattro furono rapiti da un gruppo vicino all'Isis il 19 luglio 2015. Il 2 marzo del 2016 un tentativo di liberarli si concluse con un conflitto a fuoco nel quale due di loro persero la vita, mentre gli altri due furono liberati dopo 48 ore. I vertici dell'azienda sono sotto processo, con l'accusa di non aver garantito la sicurezza dei loro dipendenti in zona ad altissimo rischio. Uno dei pochi casi in cui polemica e sciacallaggio spiccio non hanno coinciso.