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Solo Albert Einstein è riuscito a serpeggiare nell’immaginario collettivo più di Stephen Hawking, probabilmente l’ultimo grande eroe omerico della scienza moderna nell’epoca del suo crepuscolo mediatico. La sua silhouette inconfondibile, il corpo menomato, la postura sghemba, l’ironia tagliente e poi quella voce metallica sputata fuori da un sintetizzatore vocale che sembrava uscito da un b- movie degli anni 60 fanno parte della cultura pop degli ultimi 40 anni, dalle conferenze internazionali alle apparizioni nelle serie tv e persino nei cartoni animati. La malattia vissuta in pubblico con spensieratezza ne ha forgiato il mito, grazie allo schema di rovesciamenti rudimentali cari al romanzo popolare, handicap / potenza intellettuale, debolezza fisica/ forza d’animo, malasorte/volontà.
«Stephen Hawking era il suo cervello», dicono i colleghi di Cambridge come se la mente prodigiosa, fuori dal comune debba riscattare di per sé tutte le afflizioni del corpo, parole che fanno pensare all'«appendice mitologica» evocata da Roland Barthes in Mythologies quando descrive il cervello di Einstein, «un organo antologico, autentico pezzo da museo», pura materia ridotta alla sua meccanica fisiologica, ma anche una concreta metonimia dell’intelligenza umana «per lui la morte è stata l’arresto di una funzione localizzata, “il più potente tra i cervelli ha smesso di pensare”».
Eppure in quella riduzione c’è un paradosso che non può sfuggire allo stesso Barthes: «Più il genio dell’uomo si materializza nelle fattezze di un cervello più il prodotto delle sue invenzioni raggiunge una condizione magica, incarnando l’immagine esoterica di una scienza tutta racchiusa in poche lettere: l’universo è una cassaforte di cui cerchiamo la combinazione, Einstein l’ha quasi trovata nella sua formula E= mc2, nell’idea che il sapere totale debba scoprirsi tutto d’un colpo, come una serratura che cede all’improvviso dopo una serie di tetntativi infruttuosi».
I maligni (e gli invidiosi) dicono che la sfortuna di Hawking è stata sopratto la sua fortuna, che se il morbo di Charcot non l’avesse colpito quando aveva vent’anni inchiodandolo a vita su una sedia a rotelle, rendendolo incapace di parlare e nutrirsi autonomamente non sarebbe stato così celebre. Che le sue ricerche e le sue teorie sono certo interessanti ma non hanno mai avuto conferme sperimentali, che lui non è mai stato un vero genio come Einstein e altre frasi fatte.
È stato di sicuro l’unico scienziato capace di scrivere un bestseller internazionale, Dal Bing Bang ai buchi neri, saggio divulgativo ( ma non troppo) sulla “storia del tempo” letto da decine di milioni di persone e capito da quasi nessuno, stato mentale che accomuna i suoi ammiratori e i suoi ( pochi) detrattori. Ma che importa, la fisica teorica di Hawking sfiora i confini della realtà e dialoga con gli dei, i comuni mortali le accordano fiducia come si fa con un rito sciamanico; la sua ambizione smisurata è stata costruire una “teoria del tutto” ( anche se a partire dallo studio di og- getti specifici come i buchi neri) capace di unificare la relatività generale con la fisica quantistica, l’infinitamente grande con l’infinitamente piccolo, il Sacro Graal della cosmologia moderna.
Lo schema di Hawking è rivoluzionario perché mette in discussione un postulato dell’astrofisica sulla natura dei buchi neri, stelle morte la cui materia e cosi densa e la gravità è così elevata da imprigionare persino la luce: lo scienziato di Oxford al contrario ha sostenuto che i buchi neri non sono poi così tanto neri e che siano in grado emettere una piccolissima radiazione elettromagnetica, la cosiddetta “radiazione di Hakings”, il che testimonierebbe la loro “evaporazione”, una perdita di massa e una riduzione di energia che li porterebbe a sparire del tutto.
Per analogia Hawking, aiutato dal fisico matematico Roger Penrose, applica lo stesso modello alla nascita dell’universo, dal Big bang espansione improvvisa e primordiale della materia al Big crunch, il momento in cui tutta la materia tornerà a convergere in un unico “punto”, diventando una “singolarità”. In questa singolarità persino la struttura geometrica dello spazio tempo va a farsi benedire e anche la fisica einsteniana è costretta a deporre le armi; per Hawking il ciclo di un buco nero seguirebbe lo stesso climax della creazione e la disciplina che ci permette di comprendere meglio la natura della singolarità non è altro che la fisica quantistica, la radiazione che ha preso il suo nome starebbe lì a testimoniarlo.
Concetti vertiginosi ma ancora da dimostrate e oggetto di accesa discussione nella stessa comunità scientifica; in molti non credono alla teoria evaporazione dei buchi neri e ritengono troppo immaginifica e letteraria l’analogia con il Big Bang. In attesa che queste intuizioni vengano confermate (o smentite) dalla fisica sperimentale, nessuno scienziato, fisico o ricercatore potrà mai negare che le teorie di Stephen Hawking hanno influenzato più di qualunque altro lavoro il corso della cosmologia contemporanea.