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Il presidente del Consiglio europeo, Il polacco Donald Tusk, ha ribadito la linea: «l’Europa deve decidere chi fare entrare».
Una dichiarazione che non lascia presagire nessuna apertura su accoglienza e diritto d’asilo. Il trattato di Dublino certo va cambiato ma su questo non esiste una linea comune. Non c’è intesa sui ricollocamenti, con i paesi del gruppo di Visegrad, ai quali si sono accodati Austria e Italia, da un lato. Mentre dall’altro si trovano Francia, una Germania sempre più divisa e la Spagna. L’unica cosa su cui i governi europei sono stati in grado di trovare un’intesa è la creazione di partenariati per la migrazione con i paesi africani. Questi accordi si concentrano sul rafforzamento delle frontiere, sulla riduzione delle partenze e sull’aumento del numero di rimpatri di migranti che cercano di attraversare l’Europa. La prova sta nella pioggia di soldi che sta arrivando in Niger. Gli esiti, nonostante le partenze di migranti siano notevolmente diminuite, rimane incerto e non duraturo.
Ma esiste un altro racconto e un’altra realtà che l’Europa dovrebbe osservare attentamente. Se è vero che la maggioranza dei migranti proviene dall’Africa, in realtà è proprio questo continente che accoglie più migranti e rifugiati che in ogni altra parte del mondo, inoltre si stanno sperimentando soluzioni di accoglienza innovative che cominciano a dare i loro frutti. L’ Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati, Filippo Grandi ha recentemente affermato che «coloro che gridano su un’emergenza di rifugiati in Europa o in America dovrebbero visitare le comunità africane che danno rifugio a milioni di persone con risorse limitate».
Ad esempio paesi con un pil enormemente più basso rispetto all’Europa come Etiopia, Kenya e Uganda, ospitano circa 2,8 milioni di profughi. Più dell’intero numero di arrivi in tutti i 28 stati membri della Ue nel corso della cosiddetta “crisi dei rifugiati”, nel 2015- 2016. In questo senso il caso dell’Uganda è emblematico. Contrariamente ad altri paesi poveri africani (e all’Europa) ai rifugiati viene concesso il diritto al lavoro e la libertà di movimento. Ciò ha consentito alla stessa nazione ugandesi di migliorare la propria economia. Si pensi soltanto ai rifugiati rurali che possono coltivare terre abbandonate per sostenersi.
Una pratica definita “strategia” dell’autosufficienza. Un approccio che non è stato abbandonato neppure di recente quando, a causa dei conflitti in Congo e sud Sudan, il numero dei rifugiati ha raggiunto 1,4 milioni. Nonostante ciò però l’arrivo di nuovi ospiti ha fatto sorgere nuove città e creato altri mercati nei quali lavorano anche gli ugandesi. Anche in un paese come il Kenia ( 500mila rifugiati), dove vigono leggi molto più restrittive per i migranti circa il lavoro e la possibilità di spostarsi, il governo ha avviato un progetto in un campo profughi nella zona ad est di Kalobyei. Qui maggiori opportunità nel lavoro della terra stanno facendo nascere nuove imprese e opportunità di lavoro per tutti. Una tendenza registrata anche dall’aumento dei redditi.
In Etiopia vivono ben 900mila rifugiati ma nonostante questo numero sia in costante aumento si stanno implementando politiche basate, anche in questo caso, sul lavoro autosufficiente e la libertà di movimento. Si prevede che già dal 2019 la creazione di zone industriali, che fanno parte di un impegno preso dal governo nel 2016, porteranno posti di lavoro.