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Nel pomeriggio è arrivata la conferma tramite il test del Dna: Yahya Sinwar, leader militare di Hamas a Gaza è stato ucciso in un raid israeliano a Rafah, nell’estremo sud della Striscia.
Considerato come “la mente” degli attentati del 7 ottobre 2023, le forze dell’Idf gli davano la caccia da oltre un anno, convinte a ragione, che l’uomo non avesse mai abbandonato Gaza e che si nascondesse nei tunnel dell’enclave palestinese da dove continuava a dirigere la guerriglia contro il suo storico nemico. Dopo Ismail Haniyeh (capo politico di Hamas) e Hassan Nasrallah (leader e guida di Hezbollah), quello della “primula rossa” Sinwar è il terzo cadavere eccellente dell’offensiva israeliana. Mai il governo Netanyahu ha pensato di stringere accordi o semplicemente di negoziare con lui la liberazione degli ostaggi: per l’esecutivo nazionalista Sinwar era «il volto del diavolo», «la morte in prestito» o «l’arciterrorista» tanto per usare alcune espressioni tra le più gettonate.
Nonostante l’altissimo livello di sofisticazione dell’intelligence di Tel Aviv che scandaglia giorno e notte gli anfratti di Gaza e che può contare su centinaia di informatori, pare che Sinwar sia rimasto ucciso “per caso” e non nel classico omicidio mirato. Come racconta il Times of Israel, i soldati dello Stato ebraico avrebbero individuato un gruppo di combattenti all’interno di un edificio e ordinato un bombardamento che ha fatto crollare la struttura. Solamente dopo l’attacco si sono resi conto che tra i miliziani uccisi figurava anche il nemico pubblico numero uno, l’uomo in cima a the bank, la lista nera dove finiscono tutti i grandi nemici dello Stato di Israele. Contrariamente a quanto si pensasse, il leader di Hamas non era assieme agli ostaggi israeliani che avrebbe utilizzato come scudi umani per garantire la propria incolumità. Un classico colpo di fortuna dunque, che però avrà conseguenze enormi sia nel prosieguo della guerra che negli equilibri interni al movimenti islamista palestinese.
Ma chi era Yahya Sinwar, descritto dai media come un comandante militare di grande valore, che sapeva coniugare crudeltà e pragmatismo?
Nato nel 1962 nel campo profughi di Khan Younis, aderisce a Hamas nel 1987, anno della prima Intifada e della fondazione del movimento. E in poco tempo brucia le tappe, approdando alla guida di Al-Majd, una divisione nata per stanare i cosiddetti collaborazionisti, le spie palestinesi al soldo di Israele. Per finire nel mirino di Al-Majid bastava un sospetto, una voce malevola, una piccola calunnia.
In molti ricorderanno i militanti di Fatah gettati dalle finestre dei commissariati dopo la vittoria di Hamas alle elezioni del 2006, le uniche mai tenute nella striscia di Gaza. Dietro quei terribili linciaggi c’era la mano di Sinwar anche se in quel momento era in prigione. Le rappresaglie contro i “traditori” gli valgono l’ameno soprannome di “macellaio di Khan Younis”. Ma il suo desiderio maggiore era colpire al cuore Israele (il Paese che lo ha tenuto in carcere per quasi ventitré anni) per distruggerlo, in osservanza con il primo statuto di Hamas.
Viene rimesso in libertà nel 2011 in seguito allo scambio di prigionieri che riportò a casa il caporale israeliano Gilad Shalit rapito cinque anni prima dalle brigate Ezzedin el Qassam in cambio di 1027 detenuti palestinesi. Da quel momento la sua ascesa è irresistibile; numero due dell’ufficio politico e alter ego militare del politicante Hanyeh, nel 2017 diventa il dominus di Hamas nella Striscia visto che sia Hanyeh che l’altro storico leader Khaled Meshal si sono quasi sempre mossi all’esterno di Gaza.
Dai massacri 7 ottobre 2023, nessuno lo ha più visto in pubblico; per 12 mesi si mosso nell’ombra, organizzando e coordinando la “resistenza” anti-israeliana e sfuggendo a devastanti bombardamenti dell’Idf. «Si nasconde almeno dieci piani sotto terra, sarà difficilissimo trovarlo», disse qualche mese fa il Segretario di Stato Usa Anthony Blinken. Si sbagliava. La parabola di Yahya Sinwar si è interrotta ieri in un edificio della “sua” Striscia di Gaza.