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L’attacco alla Siria rappresenta per Trump un passaggio di una politica estera ancora in via di definizione, ma che sta slittando da un totale isolazionismo da campagna elettorale verso una più concreta riaffermazione di potenza degli Stati Uniti. Lo afferma il professore Stefano Silvestri, a lungo presidente dell’Istituto Affari Internazionali ( Iai)
Fino a pochi giorni fa l’amministrazione Trump diceva che Damasco non era una priorità: a cosa si deve un così repentino cambio di politica estera?
In verità Trump è andato al governo senza una vera politica estera, ma solo con alcuni slogan e la volontà di distinguersi da Obama. Ora inevitabilmente gli Stati uniti devono assumere una posizione e comincia a delinearsi una politica estera, ma è ancora tutt’altro che defi- nita. L’impressione però è di un presidente che vuole riaffermare il ruolo centrale degli Stati Uniti nella sicurezza e anche in campo militare. La posizione verso Assad e verso la Corea del Nord in questo sembrano parallele. Dove questo porterà non è chiaro, dipende anche da come andranno i rapporti con Cina e Russia. Per ora sembrerebbe quasi un ritorno al tradizionale da parte di Trump ma con un atteggiamento abbastanza aggressivo. Sicuramente più simile a Bush che a Obama, però è da vedere.
Comunque 59 missili non sono un segnale interlocutorio… Si però hanno dato un preavviso di attacco permettendo di evacuare la base, altrimenti ci sarebbero stati molti più morti. Si potrebbe dire che in fondo è un’operazione abbastanza moderata. Una mossa dura ma non estrema.
Assad è un alleato di Mosca che non l’ha presa bene… Nel rapporto con la Russia già da un po’ di tempo è chiaro che Trump abbia riconsiderato le sue dichiarazioni di volere un grande patto. In parte anche per lo scandalo Russiagate per il quale non può apparire debole o complice di cedimenti verso Mosca. E poi i suoi ministri e il consigliere per la sicurezza nazionale sembrano agire di concerto, tenendo una linea che non pare filorussa. Anche Tillerson di cui si è sospettato un rapporto diretto con Putin mi sembra disposto a trattare solo da posizioni di forza. Al semplicismo delle dichiarazioni in campagna elettorale sembra seguire una maggiore riflessione ed elaborazione sulla necessità di stabilire quali siano i rapporti di forza e quali siano gli obiettivi degli Stati Uniti.
Quindi è cambiata la linea anche sulla Siria? Qual è il messaggio dell’attacco?
Io credo che il messaggio sia che Washington è pure disposta a sostenere Assad, ma solo se si comporta da bravo ragazzo, se resta nell’orbita americana. Ed è quindi anche un messaggio per la Russia, cui si dice che Assad e la Siria non sono una sua riserva di caccia esclusiva, ma anche Washington ha qualcosa da dire in proposito.
Un messaggio anche alla Corea del Nord?
Certo, ma lì la situazione è an- cora più complicata e pesante, perché si ha di fronte un regime che se colpito potrebbe reagire anche con le armi nucleari, non contro gli Stati Uniti ma certo contro la Corea del Sud e il Giappone. Una reazione dura di Trump finirebbe per portare all’annientamento della Corea del nord, ma questo implica il consenso cinese.
A Stoccolma un camion ha falciato la folla… Il terrorismo sta chiaramente attivando sempre più questa strategia dei terroristi fai da te, delle piccole cellule che agiscono con mezzi di fortuna in maniera autonoma o semiautonoma. È un metodo e una teoria che sostenevano sia i dirigenti di al Qaeda che dell’Isis. Certo è qualcosa che ha un grosso impatto mediatico, ma credo non ci sia alcuna possibilità che in questo modo si spingano i Paesi occidentali a mollare la presa sull’Isis. Al massimo si convinceranno ad andare più per le spicce.