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«Un avvocato risponde all’ordinamento, al suo assistito e a nessun altro». Sergio Paparo, presidente dell’Ordine degli Avvocati di Firenze, interviene a difesa dell’avvocata Cristina Menichetti, difensore di uno dei carabinieri accusati di violenza sessuale contro le due studentesse americane. Il Consiglio ha votato una delibera di “non luogo a provvedere” nei confronti della collega, dopo la richiesta di un intervento da parte di un’iscritta, indignata per le «domande choc» lette in un articolo del Corsera che riportava il verbale dell’incidente probatorio.
Presidente, come è arrivato in Consiglio il caso? Una collega di un altro foro ha scritto a una consigliera, dichiarandosi indignata per il modo in cui la collega Menichetti aveva posto le domande alle studentesse americane durante l’incidente probatorio e chiedendo un intervento del nostro Ordine. La consigliera ha correttamente segnalato la missiva che le è arrivata e la questione è stata posta all’ordine del giorno.
La delibera è inequivocabile e definisce «inammissibile qualsivoglia forma di ingerenza esterna in un rapporto di dialettica processuale». In Consiglio abbiamo immediatamente escluso qualsiasi intervento disciplinare e, anzi, si è brevemente discusso se segnalare l’indignata collega al suo Ordine di appartenenza. Abbiamo infine deciso di non farlo, per non dare ulteriore spazio di polemica.
Per quale ragione avete definito «grave in quanto proveniente da un avvocato» la segnalazione? Che un avvocato si dichiari allibito perchè un suo collega si permette di fare le domande che ritiene durante un incidente probatorio è molto grave, in quanto dovrebbe essere al corrente dei principi di indipendenza della difesa. Capisco che un cittadino comune possa indignarsi ma è inaccettabile che lo faccia un avvocato, il quale deve sapere che ogni collega è libero di strutturare la difesa come meglio crede e di questo risponde solo al proprio assistito oppure a un giudice, nel caso di violazione delle regole.
Come mai la decisione di prendere una posizione così dura? Abbiamo ritenuto necessario e doveroso dare un’indicazione precisa, perchè se un’istituzione non prende posizione su una vicenda di questo tipo non svolge bene il proprio compito, soprattutto nei confronti dei giovani colleghi. Soprattutto a loro abbiamo voulto dare una indicazione dei valori sui quali fondare l’esercizio della difesa, davanti a qualsiasi giurisdizione ma ancor di più in sede penale.
Al netto di questa polemica, ritiene legittimo il dibattito pubblico sulle domande poste durante l’incidente probatorio? Trovo di estrema gravità che il dibattito processuale svolto nella fase istruttoria sia stato pubblicato da una testata nazionale e commentato da soggetti non abilitati a farlo. L’incidente probatorio, infatti, avrebbe dovuto essere coperto dal segreto. In particolare, non ho per nulla apprezzato che il Corriere della sera abbia pubblicato l’intervento del dottor Fabio Roia: si è trattato di un intervento indebito, tanto più perché fatto da un magistrato.
È stato un modo per infiammare l’opinione pubblica? La giurisdizione non va tirata per la giacca e non deve essere usata per soddisfare le esigenze dell’opinione pubblica. Deve fare il suo corso, in base alle proprie regole. I processi si fanno nelle aule di giustizia: capisco l’interesse della stampa, ma questa deriva mediatica è tanto più pericolosa in processi come questo, in cui l’attenzione è molto alta e sono dunque altissimi anche i valori in gioco.
Invece qui c’è stata un’invasione di campo? Io credo che il difensore debba fare il difensore, e come tale si aspetti la corretta applicazione delle norme. Ai giudici non sono richieste valutazioni morali o sociali, non è il loro compito.
Eppure limitare i contatti tra informazione e giustizia è impossibile. Avvocati, giornalisti e magistrati devono lavorare insieme, con la massima correttezza reciproca: per questo abbiamo proposto all’Associazione della stampa toscana e agli uffici giudiziari di organizzare insieme un seminario dal titolo “Giustizia e informazione”.
Quali sono i rischi di un rapporto distorto tra gli attori in campo? La deriva mediatica ha già determinato episodi preoccupanti, da ultimo quello recente di Pisa, in cui il difensore è stato aggredito dai parenti della vittima. Non c’è nulla di peggio di un processo visto come luogo dove accontentare gli umori popolari, in cui il giudice fa bene il proprio lavoro solo se soddisfa il senso comune e l’avvocato è un farabutto perché favorisce un imputato considerato colpevole.
Lei crede che il diritto di difesa sia considerato figlio di un Dio minore, per l’opinione pubblica? Forse il caso della polemica sulle «domande choc» è emblematico anche di questo. Purtroppo nel nostro Paese il diritto di difesa passa sempre in secondo piano, questo perché manca una cultura dei diritti e delle garanzie. Noi, come Ordine degli Avvocati di Firenze, stiamo cercando di lavorare su questo attraverso il progetto di Alternanza Scuola- Lavoro, promosso dal Cnf. Quando andiamo nelle classi, ragioniamo insieme alle giovani generazioni dei loro diritti e di come si tutelano e spieghiamo che la giustizia non serve a legittimare gli istinti dell’opinione pubblica.