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Un carlino attrae la nostra attenzione, un poster, un monumento, un murales, un tramonto, un uomo addormentato con la bava alla bocca, la nostra colazione con cereali, frutta, marmellata e caffè. Mettiamo in pausa. Ci mettiamo in posa. Scattiamo un selfie. I selfie pubblicati ogni giorno sono centinaia di milioni. Cittadini comuni, attori, politici, gente dello spettacolo low cost, astronauti, macachi, modelle, nei blog, su facebook, su instagram, su whatsapp, tempeste di selfie piovono dal cielo. La scorsa settimana cinque ragazzi indiani hanno affittato una macchina fotografica professionale e si sono recati sui binari della ferrovia di Anand Vihar, a Nuova Delhi. Volevano scattare dei selfies con un treno in corsa alle loro spalle e inserire gli autoscatti in un portfolio da presentare ad un concorso di fotografia. Due di loro sono morti travolti dal treno.
Un recente studio della Carnegie Mellon University in Usa e dell’Indraprastha Institute of Information Technology di New Delhi, ha stilato una classifica degli scatti più estremi. Al primo posto l’India con 76 morti in due anni, poi staccati di molte decine Pakistan e Stati Uniti. In Italia, l’estate scorsa l’Aci ha lanciato una campagna contro l’uso degli smartphone denunciando l’aumento di incidenti a causa dei selfie di chi è al volante. Ma perchè voler immortalare ogni istante della propria esistenza, dal più futile, la colazione appena svegli, al più adrenalinico, un selfie dal picco di una torre di Dubai?
«Il selfie ha rivoluzionato il modo di immagazzinare le nostre informazioni autobiografiche» scrive la dottoressa Marian Hardey, esperta di reti sociali dell’università di Durham, Inghilterra. «È una riscrittura continua del proprio sè, un’estensione della costruzione personale della propria immagine presentata nel migliore dei modi. Farsi selfie è simile alle donne che si truccano o agli uomini che fanno bodybuilding per dare una “certa immagine di se stessi”». Costruzione di un proprio sè e della propria memoria dunque, ma a che prezzo?
I primi di gennaio di quest’anno, sempre in India, sei tra ragazzi e ragazze sono stati ricoverati nel reparto psichiatrico. «Sentivano il bisogno impellente di mettersi in posa davanti allo smartphone», spiega lo psichiatra Nand Kumar dell’associazione Aiims, «avevano sviluppato una patologia chiamata “disordine dismorfico del corpo”, che li ha portati ad un disordine compulsivo ossessivo». Una diciottenne si è presentata di buon’ora all’ospedale dichiarando di avere una malformazione al naso. La ragazza vedeva una malformazione che non esisteva. Il difetto veniva continuamente messo sotto esame attraverso gli autoscatti. "Da questo lato si vede, qui meno, qui troppo, da qui sotto è un orrore!".
Al di là degli autoscatti in situazioni potenzialmente mortali, nella società dell’immagine e dell’estetica perfetta i selfie creano dipendenza come una droga. Producono l’illusione di poter “sottrarre alla morte” un dato momento, di congelarlo e mantenerlo vivo. È come gridare al mondo “sono vivo! sono vivo! ”. Ma mentre gridiamo “sono vivo! ” e scattiamo, stiamo mettendo in pausa la realtà intorno a noi.
«Un concorso di popolarità al liceo con steroidi digitali» così lo scittore e blogger John P. Titlow commenta l’abitudine, ormai globale, di condividere, compatire, giudicare, approvare o disapprovare un selfie sulle reti sociali. «La maggioranza di coloro che scattano e pubblicano selfie ricercano costantemente l’approvazione da parte dei loro pari o di una comunità ancora più ampia. E oggi, con internet, potenzialmente potremmo desiderare l’approvazione del mondo intero».
L’istantaneità della tecnologia diventa un braccio meccanico, come quello per scattarsi sefie, che alimenta la compulsività di una società fast, fondata sul consumo vertiginoso e accelerato. Il giudizio che matura grazie all’attenzione prolungata non esiste più. Foto, film, libri, partner sessuali, profumi, abiti, selfie, emozioni. Ogni cosa è sostituita da una nuova versione della stessa, veicolata gratuitamente dalla tecnologia e da internet, che si erge a fucina iperproduttiva di modelli, di canoni estetici. E allora bisogna scattare, postare, scattare, postare e scattare di nuovo, cercando l’accettazione al di fuori di se stessi.
Poppy Dinsey è la creatrice del sito “What I Wore Today” ( Che ho indossato oggi). All’inizio la bella imprenditrice pubblicava un suo selfie giornaliero con un outfit sempre diverso. Il sito è diventato in poco tempo un hit del web seguito da centinaia di migliaia di fan che adesso possono caricare i propri autoscatti con gli abiti che indossano giorno dopo giorno e votano gli outfit migliori. «La gente ama il controllo che scattare selfies le da», dichiara Poppy Dinsey, «Con gli obiettivi frontali degli i- phone, puoi vedere cosa stai scattando e mostrarti al meglio possibile. Inoltre, puoi scattare e riscattare senza che nessuno debba sapere quanta vanità c’è dietro quella posa “naturale”».
Quando nacquero i dagherrotipi e i coloni inglesi scattarono le prime foto nel Nuovo Mondo, si sparse la diceria che gli indiani d’America credessero che una foto potesse rubare l’anima. La metafora fu derisa, come fu deriso il diritto alla vita di quel popolo. Oggi quel mito indiano è più attuale che mai e i selfie, come molti altri comportamenti ossessivi esasperati dalla tecnologia, stanno lentamente consumando le nostre anime. Scattando selfies, per prima cosa noi mettiamo continuamente in pausa il nostro flusso esperenziale ed emotivo. Lo disgreghiamo in decine di autoscatti che ci danno l’illusione di afferrare l’istante, la vita, di cui invece perdiamo l’intima ricchezza che sta nel suo costante fluire. E secondo: che quella foto, per perfetta che sia, non potrà mai dire cosa abbiamo al nostro interno. Piuttosto spesso anzi lo nasconde, come quando sorridiamo di fronte all’obiettivo ma vorremmo gridare e rompere ogni cosa ci circondi.
Intanto, proprio nel Nuovo Mondo, nella piazza del municipio della ridente cittadina texana di Sugar Land, una scultura in bronzo rappresenta due adolescenti a grandezza naturale intente a scattarsi un selfie. E nella città turca di Amasya un soldato ottomano in bronzo con tanto di spada si scatta un selfie con l’altra mano. Risultato? Centinaia di cittadini e turisti scattano selfie alla scultura che si scatta un selfie