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L’ ultima è di qualche giorno fa, quando Trump ha comunicato – via twitter, ovviamente – che non avrebbe partecipato alla cena dell’Associazione dei corrispondenti della Casa Bianca: « I will not be attending the White House Correspondents’ Association Dinner this year. Please wish everyone well and have a great evening! ». «Una buona serata» – che suona più come uno smacco che un saluto di cortesia.
Nessuno ricorda più se e quando sia stata consegnata la dichiarazione di guerra, ma che sia guerra aperta ormai tra la presidenza Trump e i media americani è un dato di fatto.
Pochi giorni fa, la Casa Bianca ha impedito l’accesso a una conversazione informale con il portavoce Sean Spicer ai giornalisti di BBC, CNN, New York Times, Los Angeles Times, BuzzFeed e Politico. I giornalisti di AP e Time allora non hanno partecipato per protesta. Quelli di
Bloomberg, del Wall Street Journal e del Washington Post hanno partecipato dichiarando che se accadesse un’altra volta loro non ci verranno più. Questa guerra ha le sue ragioni: durante la campagna elettorale non furono solo le testate democratiche a dichiarare il proprio endorsement per la Clinton, ma sorprendentemente molte testate di provata fede repubblicana.
Usa Today, uno dei più diffusi quotidiani, ruppe una lunga tradizione di non schieramento nella corsa presidenziale con un editoriale in cui dichiarava Trump «unfit for the presidency». Inadeguato. Cinque tra i più importanti quotidiani conservatori avevano espresso la loro opposizione a Trump, talvolta rompendo una tradizione più che centenaria.
The Arizona Republic non appoggiava un candidato democratico dal 1890; Detroit News non ha fatto mancare il suo appoggio a un candidato repubblicano solo tre volte dal 1873; il New Hampshire Union Leader e il Cincinnati Enquirer non sostenevano democratici dal 1916; mentre l’ultima volta che il Dallas Morning News si era schierato con un democratico era il 1944 e il candidato era Franklin D. Roosevelt.
Glenn Greenwald, che era giornali- sta del Guardian quando raccontò la storia di Edward Snowden e dei sistemi pervasivi segreti di sorveglianza del governo americano, intervistato dalla rivista Slate la mise giù brutale: «The U. S. media is essentially 100 percent united, vehemently, against Trump / I media americani sono essenzialmente al cento percento uniti, con veemenza contro Trump».
D’altronde, tra Trump e i media era già odio reciproco. Trump aveva centrato la propria campagna proprio contro i media «disgusting and corrupt». Durante le primarie, a Fairfield, Connecticut, disse: «Non sto correndo contro quell’imbrogliona – crooked – della Clinton, ma contro quegli imbroglioni – crooked – dei media».
Disonesti, disgustosi, imbroglioni, manipolatori di notizie false – più o meno è questo l’andazzo degli epiteti di Trump contro i media. Ultimamente insiste con le fake news, notizie false – dice che buona parte delle notizie che vengono date soprattutto sul clima interno allo staff presidenziale e alle difficoltà incontrate sinora sono fabbricate a arte, presentate come fossero soffiate dall’interno e anonime ma sostanzialmente non veritiere, e che se se ne chiede conto si trincerano dietro il primo emendamento. Figurarsi, lui, Trump, è il più fervente sostenitore del primo emendamento.
L’acme dello scontro è stato intorno alla nomina del generale Flynn a Consigliere per la sicurezza nazionale, poi revocata quando è saltato fuori che il generale aveva rilasciato commenti e dichiarazioni in conversazioni con l’ambasciatore russo a Washington, Sergei Kisilyak, a proposito delle sanzioni, mentre era ancora presidente Obama e Trump non aveva prestato giuramento. Flynn era stato convocato dal vicepresidente Pence e aveva negato, ma i media avevano dimostrato l’evidenza di questi colloqui che erano stati, doverosamente, intercettati dall’Fbi. Tutto era passato ai giornali attraverso “gole profonde”, e questo aveva davvero imbestialito Trump. Per capire quale sia il clima nello staff di Spicer, addetto ai rapporti con i media, in una riunione di “emergenza” dopo che era evidente che informazioni riservate erano state passate ai giornali proprio dall’interno dello staff, Spicer ha chiesto ai collaboratori di lasciare i loro cellulari su un tavolo, per un controllo. E li ha ammoniti che usare app come Confide e Signal, che sostanzialmente cancellano il testo dopo averlo pubblicato non lasciando tracciabilità, è una violazione dei regolamenti. Spicer era accompagnato da due legali della Casa Bianca.
Qualche giorno fa alla Conservative Political Action Conference – l’incontro annuale degli attivisti repubblicani – Trump è tornato sull’argomento dei media, tra una promessa di spezzare le reni all’Isis, di rivedere il sistema sanitario dell’Obamacare, di smetterla con il welfare e tornare a lavorare. E ha aggiunto, dopo la solita intemerata contro i “dishonest media” e le loro fake news: « We’re going to do something about it / faremo qualcosa per questo». Una minaccia?
Che Trump tema i media è una cosa. Steve Bannon, l’uomo dell’ultradestra suprematista bianca che ora è suo consigliere strategico, si è riferito spesso ai media come “the opposition party”, il partito dell’opposizione. E lo stesso Trump ha dichiarato di considerare la stampa “a more prominent foe”, un nemico più temibile del Partito democratico.
Che Trump attizzi continuamente la guerra contro i media è un’altra cosa. Bannon li chiama “globalist media”, calcando la mano su quell’attenzione al mondo che sembra essere diventata una colpa, dato che ora il motto è “America First” – c’è una preoccupante ricorrenza, non una semplice riproposizione, con l’accusa che il nazionalsocialismo tedesco rivolgeva al mondo ebraico di essere “cosmopolita”. Così, l’ultima locuzione con cui Trump si riferisce alla stampa è di essere « the enemy of the people », nemici del popolo, un curioso richiamo alle purghe staliniste e al bombardamento maoista del quartiere generale. Davvero lo scollamento tra i media americani – per decenni considerati i custodi della democrazia – e i cittadini è arrivato a un punto che Trump si possa permettere di attizzare l’odio contro di loro?
Carlos Lauria, direttore per le Americhe alla Commissione per la protezione dei giornalisti, una organizzazione no- profit che si batte per la libertà di stampa, ha commentato preoccupato l’evolversi di questa retorica trumpiana: «Succede ovunque nel mondo ci siano leader autocratici – e ha citato l’Egitto, il Venezuela, la Russia e la Turchia. L’obiettivo di questa campagna di denigrazione è rendere immune l’Amministrazione dal legittimo esercizio di critica delegittimando i media».
Sarà una vera guerra nucleare, questa tra i media americani e Trump.