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Il catalogo è praticamente infinito, basta uno smartphone e un numero di carta di credito. Le puoi scegliere a seconda della provenienza etnica, dell’avvenenza fisica o per le semplici referenze.
Come Fatou, 16enne della Guinea che, secondo il suo “venditore”, è una giovane «docile, gentile e sorridente che lavora fino alle cinque del mattino senza lamentarsi mai». Oppure la 20enne nepalese «che non ha mai osato in vita sua chiedere un giorno libero», o la 19enne del Senegal che «ride anche quando sta male».
Sono migliaia le ragazze che al pari di Fatou e le altre ogni anno vengono vendute alle famiglie benestanti del Golfo ( Arabia Saudita, Emirati arabi, Qatar e soprattutto Kuwait) dove svolgono ufficialmente le funzioni di collaboratrici domestiche ma di fatto vengono trattate come autentiche schiave. Provengono dall’Africa ( Ghana, Etiopia, Sudan, Nigeria) o dall’Asia ( Sri lanka, India, Nepal, Filippine) e costano al massimo duemila euro.
Per quel prezzo il loro padrone acquisisce su di loro una specie di diritto divino; segregate in casa e private del passaporto, il più delle volte vivono in condizioni degradanti, sfruttate come bestie, maltrattate dalle famiglie di “accoglienza”, costrette a lavorare anche la notte e messe a dormire nelle stalle degli animali. Nove nuclei familiari su dieci in Kuwait hanno una colf di nazionalità straniera, ma chi prova a girare nelle strade della capitale può essere certo che non le incontrerà mai. Una presenza invisibile ma non per questo meno dolente.
È stata una bella inchiesta della Bbc arabic a scoperchiare lo squallido mercato delle domestiche straniere importate illegalmente nelle ricche petromonarchie della penisola arabica ( ma anche in paesi mediorientali come il Libano) e a inchiodare i giganti dell’economia digitale.
La tratta si svolge infatti su comunissime applicazioni presenti nei negozi virtuali dei nostri smartphone come 4sale e Haraj, applicazioni approvate e disponibili su Google play o sullo store di Apple. Ma anche su un social network come Istagram ( che appartiene a Facebook) dove, attraverso degli hashtag mirati e potenziati dall’algoritmo, è possibile accedere al ricco catalogo.
«Questi colossi hanno delle gravissime responsabilità perché tramite le loro piattaforme promuovono un commercio illegale di persone on line», denuncia Urmila Bhoola, relatrice speciale delle Nazioni Unite sulle nuove forme di schiavitù.
Sia Google che Apple hanno chiesto scusa per la loro negligenza, promettendo che verrà fatta più attenzione sui contenuti che viaggiano sulle loro applicazioni lavorando direttamente con gli sviluppatori, mentre Facebook ha annunciato la rimozione di decine di hashtag incriminati. Ma la Bbc ha scoperto che gli elenchi delle piccole schiave sono ancora presenti in rete, suggeriti da nuovi hastag che nascono come funghi sulle ceneri di quelli rimossi.
Per scoprire i meccanismi della tratta due giornalisti della Bbc hanno finto di essere una coppia in cerca di una collaboratrice domestica straniera e, tramite l’applicazione 4sale, hanno contattato 57 persone che gli hanno proposto la vendita di una schiava: «Quasi tutti i venditori ci hanno suggerito di requisire il passaporto alla ragazza, di confinarla dentro casa, di rifiutare qualsiasi forma di permesso e, naturalmente di confiscarle anche il telefono».
La brutalità e il razzismo del linguaggio hanno colpito i due reporter: «Ci hanno detto che gli indiani sono sporchi e pigri, che gli asiatici sono stupidi ma devoti, parlano di queste povere ragazze come se fossero degli oggetti di loro proprietà».
Le giovani accettano di trasferirsi all’estero spinte dalle precarie condizioni economiche del loro paese di origine e dalla speranza di guadagnare abbastanza denaro da poter aiutare le proprie famiglie.
Una speranza vana considerando che, nel migliore dei casi, la loro paga è di poche centinaia di euro. E stiamo parlando delle più fortunate visto che lo stipendio spesso non viene nemmeno pagato. Una situazione di illegalità flagrante che colpisce delle ragazze giovanissime che secondo le leggi locali non potrebbero essere assunte come domestiche ( l’età minima per lavorare è 21 anni).
In teoria, appena approdate nel Paese, le lavoratrici straniere dovrebbero essere registrate presso le autorità e integrate nel sistema di affido e patrocinio detto kafala che serve a proteggere i minori dallo sfruttamento. Ma attraverso 4sale e Haraji la kafale viene facilmente aggirata e il mercato nero può continuare a prosperare.