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Il “buco” è una gabbia di 18 metri quadrati del carcere di massima sicurezza di Leavenworth (Kansas city); all’interno una branda, il water, il lavandino e una piccola scrivania, al soffitto, attaccate alle barre di acciaio, le luci, abbacinanti, in funzione 24 ore su 24.
Per trentasei anni il “buco” è stato l’unico orizzonte di Thomas Silverstein, condannato all’ergastolo per due omicidi e sepolto vivo nella Special Housing Unit, una “prigione nella prigione” come viene chiamata dai detenuti. Trentasei anni senza avere nessun contatto umano e sotto la continua sorveglianza delle guardie carcerarie.
«Avete presente il suono snervante dell’acqua che gocciola da un rubinetto nella notte? Qui la vita è così, la senti gocciolare impietosa assieme ai minuti, alle ore, ai giorni, alle settimane, agli anni, tutto gocciola, senza fine e senza sollievo», scrisse qualche anno fa Silverstein in un articolo inviato al giornalista Pete Earley, un freelance autore di importanti inchieste per il Washington Post e il New York Times e soprattutto di The Hot House: Life Inside Leavenworth Prison, il libro in cui racconta l’esistenza distopica del prigioniero Silverstein, sepolto vivo dal 1983 da Norman A. Carlson, il direttore nazionale del Bureau of Prisonsn (Bop) ma mai del tutto piegato nello spirito.
Ha avuto una gioventù balorda Thomas Silvertein, nato nel 1952 a Long Beach (California) da una famiglia piccolo borghese ma molto turbolenta, a 14 anni è già dipendente dall’eroina e ha già conosciuto il riformatorio, e la vita è tutto un susseguirsi di espedienti, con i piccoli furti, lo spaccio, i primi pestaggi da parte della polizia.
A 23 anni viene arrestato per una rapina a mano armata che compie assieme allo zio e viene condannato a 15 anni da scontare nel penitenziario federale di San Quintino. Tra le sbarre Silverstein scopre la “politica”, si unisce alla Fratellanza Ariana un gruppo suprematista radicale in guerra permanente con le gang afroamericane che spadroneggiano nel carcere.
Nel 1979 viene accusato e condannato all’ergastolo per l’uccisione di un detenuto nero, un delitto che non ha mai commesso come emergerà da indagini più accurate quando ormai era troppo tardi. Troppo tardi perché Silverstein nel frattempo è diventato un vero assassino e nel 1981 uccide a coltellate Robert Chappell, membro di una gang che lo aveva più volte minacciato. Appena due anni dopo la furia di Silverstein si riversa sulla guardia carceraria Merle Clutts che poi accuserà di continue vessazioni.
Quest’ultimo omicidio colpisce molto l’opinione pubblica, i tabloid più popolari lo sbattono in prima pagina e lo descrivono come un mostro, una specie di Hannibal Lecter ante litteram.
È il 1983 e il Bop decide di metterlo in isolamento totale, prima nel carcere di Atlanta, poi in quello di Marion, infine a Leavenworth, nel “buco”, ribattezzato dai media con fatuo sadismo The Silverstein’s suite.
Nel corso del tempo ha ottenuto qualche “privilegio”, come una tv in bianco e nero, dei fogli e dei colori per disegnare, libri (inizialmente poteva consultare solo la Bibbia): «Se non ti fanno delle concessioni poi non hanno nulla da toglierti, anche questo fa parte della strategia di controllo», spiega Earley.
L’isolamento di Silverstein si è interrotto due volte, la prima, paradossale per un convinto sostenitore del “white power”, durante una rivolta capeggiata da una gang cubana che lo libera per tre giorni, la seconda per un’infezione ai denti in cui viene trasferito nell’ospedale della prigione incatenato con gli schiavettoni e scortato da 15 secondini (sic).
Negli ultimi anni di detenzione si è appacificato, ha abbandonato la Fratellanza, ha praticato lo yoga, ha realizzato centinaia di disegni, e soprattutto ha messo a fuoco la sua condizione di esilio esistenziale: «È più umano essere uccisi dal boia che la tortura che ho subito, ma non sono diventato pazzo, ho resistito e oggi non provo più rabbia», ha detto nella sua ultima intervista.
Thomas Silverstein si è spento la scorsa settimana a 67 anni per un improvviso attacco cardiaco, verrà ricordato per il più lungo isolamento carcerario della storia americana.