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Immaginate uno stadio, o parte di esso, in questo o nell'altro emisfero del Pianeta, che tra la fine degli Cinquanta e la prima metà dei Settanta fischia, insulta, irride, minaccia un giovanotto con la palla al piede che si chiama Edson Arantes do Nascimento, il meraviglioso, ' magico' Pelé. E lo fa non per ' addomesticare' o condizionare la sua impresa calcistica, coronata o meno dal successo, ma soltanto per il colore della sua pelle.
No, non riuscite ad immaginarlo, almeno voi che avete superato i cinquant'anni. E neppure voialtri più giovani che le gesta di O' Rey avete ammirato o soltanto di sfuggita sfiorato con lo sguardo attraverso milioni di registrazioni televisive. Non potete neppure provare ad ipotizzarlo perché quel mondo, nel secolo passato, era decisamente migliore. Se al Maracanà era perfino ovvio che non passasse neppure lontanamente l'idea di un insulto razzista, altrettanto era impensabile a Wembley e perfino all'Heysel dove il 29 maggio 1985, si consumò la più cruenta tragedia calcistica della storia, nel corso della finale di Coppa dei Campioni tra Juventus e Liverpool: 39 morti, di cui 32 italiani, e 600 feriti. Non c'entrava il razzismo a Bruxelles, ma l'imbecillità di facinorosi e violenti che degenerò in un crimine orrendo.
No, neppure nei più vicini anni Ottanta era immaginabile che quando un calciatore dalla pelle nera toccava un pallone esplodessero grida belluine dagli spalti e s'invocasse per lui e la sua squadra un qualche esemplare flagello: per esempio l'eruzione del Vesuvio. Il mite Kalidou Koulibaly, “senegalese, francese e napoletano”, come si è limpidamente ed elegantemente definito, coriaceo è corretto in campo, gentile e signorile fuori - che forse mai ha letto i versi struggenti e suggestivi del suo antico presidente Leopold Sedar Sengor, padre orgoglioso della ' negritudine' e sincero amico dell'Europa fino a riconoscere e a vantare il suo tributo alla latinità - forse soltanto in Italia si è sentito smarrito ed offeso sentendosi apostrofato in quasi tutti i “civilissimi” stadi del Belpaese come un “negro” da dileggiare, contro il quale esibire i tormenti psichici di turbe di scalmanati per i quali il calcio non è altro che un pretesto per scatenare la loro barbara inettitudine ad accettare il confronto, la diversità degli orientamenti sportivi e, di conseguenza, esaltarsi nell’esplicitazione della violenza più elementare contro chi ha la pelle di un altro colore.
Il difensore afro- napoletano, fiero della sua identità e della sua profonda umanità, non si è mai abituato alle costumanze italiche calcando ogni settimana i terreni di gioco dove una patetica ' guerra' di sconcezze si combatte in nome dell'inciviltà. E reagisce come può, con il silenzio più spesso, con comprensibile insofferenza talvolta, magari richiamando arbitri, dirigenti e forze dell’ordine a dovere di tutelare non tanto se stesso, quanto un’idea di civiltà che lui sente profondamente, a differenza di quanti spendono molte parole, inutili ed evanescenti, ma non un solo fatto concreto mettono sul piatto di una partita che non è più evidentemente di calcio, ma ha assunto, per l’ignavia dei responsabili, a cominciare dal movimento calcistico stesso, le fattezze di una sconcia, volgare e criminosa rappresentazione che è la negazione stessa dello sport: l’ irrisione cioè dell’avversario considerato un “nemico”.
Siamo lontani dalle analisi di Desmond Morris che descriveva, decenni fa, la “tribù del calcio” come una forma di “riconoscimento” delle differenze, arricchito da riti quasi pagani, da appartenenze orgogliose. No, non confondiamo i piani della discussione nel rappresentare il calcio odierno. I tifosi non sono più quelli di una volta. Molti dei club ultras sono associazioni per delinquere vere e proprie. Le frustrazioni che animano gli adepti della feroce religione da stadio attengono alla psico- patologia, non alle manifestazioni eccentriche connaturate allo sport. E se non si tiene conto di tutto questo, se il razzismo si fonde con gli interessi miliardari che opprimono e deprimono il calcio, è impossibile ricondurre alla ragionevolezza le migliaia di “invasori” che come alieni s’impossessano di uno spettacolo che dovrebbe esalare altri valori, come quando c’incantavamo nel vedere quel ragazzo negro brasiliano trasformarsi in un idolo con la palla al piede.
Se i responsabili dell’ordine pubblico e della federazione non hanno ritenuto mercoledì scorso di mettere fine allo sconcio di San Siro facendo chiudere anzitempo l'incontro, avranno avuto le loro ragioni, ma dovrebbero avere il dovere di spiegarle, posto che la legge al riguardo parla chiaro, oltre alle formali richieste in tal senso dell’allenatore e dei dirigenti del Napoli.
Non è in discussione soltanto l’ordinato confronto nel campo e sugli spalti in casi del genere, ma il valore civile insito nella competizione sportiva. Presumiamo, per come vanno le cose, che non importi nulla a nessuno di tutto questo. Desolati ricordiamo che durante gli antichi giochi olimpici perfino le guerre venivano sospese. Certo, non per continuarle negli stadi del tempo dove piuttosto gli umili come gli aristocratici s'inebriavano davanti alla bellezza del gesto atletico di un discobolo o alla forza della lotta che non prevedeva umiliazioni. Erano gli incitamenti d'allora respiri di gloria il cui soffio raggiungeva vincitori e vinti.
Oggi siamo soltanto patetici sconfitti. Tutti. Sui campi di calcio come nella vita. Per fortuna che c’è Kalidou Koulibaly a ricordarci, almeno, un po’ che cos’è la civiltà, dentro e fuori gli stadi di calcio.
Gennaro Malgieri