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Leonardo Sciascia
Come Sciascia aveva immaginato, è stata la società civile a rivelarsi troppe volte un bluff in Sicilia, in Calabria come altrove. Un mix di manifestazioni, premi, riconoscimenti, targhe, commemorazioni, pubblicazioni, articoli, libri, serie televisive e via seguitando che ha creato un imprevisto quanto florido mercato dell’antimafia. Come tutti i mercati anche questo ha le sue leggi, i suoi padroni, le sue regole di ingaggio e quelle di uscita.
Trenta anni sono molti. Ma per la lenta clessidra che misura il tempo della lotta alla mafia sembra il moto di pochi giri. Tra le parole che Sciascia adoperò nel suo celebre articolo sui “Professionisti dell’antimafia” sarebbe difficile trovare (ancora oggi) un punto di equilibrio condiviso, una convergenza che vada oltre l’immensa stima verso l’intellettuale e il sommesso tributo a chi parve la vittima più immediata di quelle parole, ossia Paolo Borsellino. La morte sua e di Falcone, di fatto, sono suonate come un sigillo sul “torto” di Sciascia, sull’errore tante volte rinfacciatogli per quella posizione. La falce mafiosa ha giocato uno scherzo terribile al genio di Racalmuto, facendolo apparire un antagonista di colui che, invece, lo amava profondamente (Falcone) e, addirittura, lo annoverava tra i suoi maestri (Borsellino).
In questi giorni Felice Cavallaro e altri hanno ricostruito con chiarezza il clima di 30 anni or sono. Le scuse, le incomprensioni, i riavvicinamenti tra i protagonisti della querelle sono stati rievocati con precisione, ma quelle parole restano un materiale incandescente, difficile da manipolare. Sciascia evocava il rischio che, in nome di una professionalità così difficile da misurare e valutare, si consumassero ingiustizie, si aprisse la strada alla discrezionalità più sfrenata. In un settore, come quello della lotta alla mafia, in cui peraltro era e resta decisivo l’approccio dei media, la mediazione tra carte processuali e pagine dei giornali. Una cristalleria, fragile e incline alle crisi di nervi ancora oggi.
C’è da chiedersi per quale ragione. La prima, sopra ogni altra, è che le mafie dopo trent’anni non sono state ancora battute. Sono all’angolo, in enorme difficoltà, sbrindellate in molte articolazioni, ma non sono ancora state sconfitte. Abbiamo la legislazione più severa del mondo, la migliore polizia giudiziaria, una parte importante della magistratura interamente votata a questa battaglia eppure non se ne viene a capo. La cosa più sconfortante è, soprattutto, che nessuno si senta in dovere di fornire un’indicazione, di dare una scadenza, di indicare un evento che possa servire da punto di verifica. Si combatte e basta in un’emergenza senza fine.
Una gigantesca guerra di trincea in cui si lotta per vette, per colli o per radure che, una volta prese, non hanno alcun significato decisivo. Sono ormai centinaia le conferenze stampa in cui si annunciano sequestri, catture di boss e arresti salutati con toni roboanti e che, poi, si rivelano solo l’ennesima tappa di un’Anabasi infinita e sconsolata.
La seconda, di ragione, che rende ancora scivolose le parole di Sciascia e arduo un ragionamento pacato, riposa nel mondo in cui la politica si è organizzata per combattere la mafia. Centrale in questa visione era il mito della società civile che doveva sostenere la prima linea delle toghe e delle polizie con la forza della propria innocente purezza. Un mito che Sciascia aveva spezzato con le sue parole, suonate come un j’accuse lanciato proprio contro chi doveva essere solo sostenuto e tutelato. Però, come l’intellettuale siciliano aveva immaginato, è stata la società civile - quella cioè che le mafie tiene in vita con la sua domanda di illegalità - a rivelarsi troppe volte un bluff in Sicilia, in Calabria come altrove. Un mix di manifestazioni, premi, riconoscimenti, targhe, commemorazioni, pubblicazioni, articoli, libri, serie televisive e via seguitando che ha creato un imprevisto quanto florido mercato dell’antimafia. Come tutti i mercati anche questo ha le sue leggi, i suoi padroni, le sue regole di ingaggio e quelle di uscita. Se le parole di Sciascia fossero oggi messe al centro di una discussione serena, si capirebbe che i «professionisti dell’antimafia» di cui occuparsi non sono (i pochissimi) magistrati o poliziotti che fanno carriera solo per la professionalità e l’impegno profuso sul fronte delle cosche. Lo sguardo dovrebbe volgersi a quel mondo in cui (esclusa Libera e pochi altri) vivono e operano gruppi della società civile con lo sguardo volto alle cordate di “combattenti” da promuovere mediaticamente e la mano tesa alle casse pubbliche di una politica che considera l’obolo all’antimafia sostanzialmente alla stessa stregua di una mazzetta alla mafia.