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Il cachet destinato al conduttore di Sanremo 2017 è presto diventato un caso politico, quasi l’appendice di un altro festival informale, ossia la festa- farina- forca del populismo in versione pop. Gli insulti contro Carlo Conti nel pozzo artesiano della rete non si contano quasi più. Il punto è che se di lui non si può dire male, purtroppo però neppure se ne possono esaltare le stimmate da eterna provincia.
Il cachet destinato al conduttore di Sanremo 2017 è presto diventato un caso politico, quasi l’appendice fosforescente di un altro festival informale tuttavia non meno significativo nel costume nostrano recente, ossia la festafarina- forca del populismo in versione pop. Al punto che il collega Fiorello, non meno campione di stimata moderazione al limite del doroteismo, si è sentito in dovere di stigmatizzare i «soliti rosiconi», aggiungendo che «non è giusto lavorare gratis». Sarà bene però andare oltre il dato immediato dei 730, provare a guardare oltre i singoli Iban, se non altro per comprendere il vero nodo della questione. Assodata la rilevanza che Carlo Conti ha assunto nel mandàla spettacolare nazionale, come suggerisce su Facebook il mio amico Marco Tucciarone, «sarebbe interessante azzardare una fenomenologia di Carlo Conti. Si rischia però la pagina bianca».
[caption id="attachment_31854" align="alignnone" width="525"] Fiorello[/caption]Il paradosso non è poi così peregrino, nel senso che di Conti non si può dire male, purtroppo però neppure esaltarne le stimmate da eterna provincia, se è vero che l’uomo, il professionista, il presentatore, il conduttore radiofonico “vissuto” ( una figura classica dell’ideale Mercante in fiera delle antiche radio “libere” non meno di provincia), incarna una tragica medietà, la medesima che in altri decenni, dove però esisteva il contrappeso di un ceto intellettuale dialetticamente agguerrito: penso a Umberto Eco, ma ancor di più a Luciano Bianciardi, il servizio pubblico, e non, ha subito da Mike Bongiorno l’apoteosi della banalità conclamata. Ciò che in Mike era comunque implicita parodia vivente di se stesso, caricatura in cima al calvario del Cervino per pubblicizzare un liquore dal nome antitetico a ogni pensiero pio, ossia la Grappa “Bocchino”, al punto da far sospettare che l’uomo più che essere “ci facesse”, al contrario in Conti tutto appare tragicamente, compattamente serio. Non è un caso che il suo portato culturale giunge fino a noi dal filone toscano che vede come cuspidi i Pieraccioni e i Panariello. Insomma, dei Benigni Hag, cioè decaffeinati, ottimi professionisti, ma crocifissi con pervicace convinzione a cliché vecchi e risaputi, tra ammicco e “oh, l’artro giorno mi’ cuggino”.
Accade adesso che molti frequentatori della rete abbiano deciso di scegliere l’amato Conti come simbolo di immoralità, escludendo gli insulti apodittici, cos’è che, seguendo lo spirito del degno collega moralizzatore Beppe Grillo, gli rimproverano? Gli imputano di portarsi a casa 650.000 euro, così almeno si presume, gli stessi che secondo gli indignati andrebbero invece destinati- devoluti ai “terremotati dell’Abruzzo”, e allora giù con una sequenza di “non ti vergogni? ”, e anche molto di peggio.
Ad alcuni irriducibili della fantasia, nonostante si legga che Conti avrebbe in mente un colpo di teatro come benefattore, sembra assai più grave che non si spendano parole sul luogo comune, crimine assai più grave, che il professionista Conti incarna quasi come canone culturale doveroso per la kermesse di Sanremo e forse per l’esistenza spettacolare stessa, cioè la prosecuzione della banalità radiofonica, un conformismo indossato come cifra di massa destinato alla costruzione di un format per acefali, il festival stesso.
Nessuno dimentichi che la nomina di Conti a direttore artistico di RadioRai fa suonare ancor più inquietante la parafrasi di un’antica massima attribuita al re dei Caledoni: hanno fatto un deserto e lo hanno chiamato Radio2, la rete dell’intrattenimento, dove il raro focolaio di ironia, quello con Lillo e Greg, ha rischiato la garrota. Un deserto tempestato di compilation, di battute banali forgiate sull’idea che l’ascoltatore sia fondamentalmente un’anima semplice, uno cui puoi consegnare in dote una sorta di eloquio da conduttori impostati nel più penosa dischettificio, del tutto simile alla calligrafia paffuta con i pallini sulle i che tempesta i diari della già citata banalità, un deserto nemico d’ogni estro e perfino d’ogni eros che ignora l’esistenza dei fiori, roba che detto a proposito di Sanremo suona ancor più mostruosa.