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La leader birmana e premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi respinge con sdegno l’accusa di coinvolgimento nella pulizia etnica della minoranza musulmana dei Rohingya che ha scosso la comunità internazionale e si schiera convintamente con i militari del suo Paese. Davanti alla Corte internazionale di giustizia dell’Aja San Suu Kyi nega infatti che ci sia stato un genocidio o anche un tentativo di genocidio, sostenendo che il «quadro sui Rohingya è incompleto e fuorviante».
San Suu Kyi ammette timidamente che qualche eccesso c’è stato, ma nulla di più. È invece «sicura» che le accuse rivolte dalla Corte dell’Aja al potente esercito birmano sono ingiuste: «Non si può escludere che i militari abbiano usato una forza sproporzionata, ma sicuramente l’intento genocida non può essere l’unica ipotesi».
A citare in giudizio all’Aja il Myanmar è stato lo Stato africano del Gambia, che in rappresentanza delle 57 nazioni dell’Organizzazione della cooperazione islamica ha formalmente accusato il paese asiatico di aver violato la Convenzione sui genocidi del 1948. La leader avrebbe avuto un atteggiamento più che accondiscendente nei confronti della repressione per non inimicarsi l’esercito da una parte ma anche per blandire il sentimento diffuso tra l’opinione pubblica birmana di aperta ostilità se non di aperto razzismo verso i musulmani rohingya, ritenuti «immigrati illegali» dal Bangladesh, nonostante la loro permanenza di lunghissima data sul territorio dello Stato birmano di Rakhine.
I silenzi e le dichiarazioni ambigue di San Suu Kyi sono però costate al Premio Nobel dure critiche da parte della comunità internazionale e delle ong umanitarie. Il gruppo per i diritti umani Amnesty International ha revocato la propria onorificenza lo scorso anno, denunciando il «vergognoso tradimenti dei valori per cui un tempo si batteva».
Altrettanto hanno fatto organizzazioni e atenei nel mondo occidentale.