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Il covid- 19 sta mettendo a dura prova non solo il nostro sistema sanitario ma anche le nostre libertà. Ne parliamo con Gilberto Corbellini, ordinario di Storia della Medicina e docente di Bioetica alla Sapienza di Roma e dirigente del Cnr, ora in libreria con “Nel paese della pseudoscienza. Perché i pregiudizi minacciano la nostra libertà”, edito da Feltrinelli.
Se non ci fossero posti in terapia intensiva per tutti, quale criterio si dovrebbe adottare?
La Società Italiana di Anestesia, Analgesia, Rianimazione e Terapia Intensiva (Siaarti) ha pubblicato qualche settimana fa una guida rivolta ai primari che gestiscono l’emergenza e che si possono trovare a dover fare scelte che limitano ai pazienti l’accesso al trattamento intensivo in condizioni di scarsità di risorse. Il documento tiene abbastanza conto del dibattito bioetico internazionale, ma ancora una volta declinato in un’ottica paternalistica e medico- centrica. Tipica di questo Paese. Non si accenna da nessuna parte all’autonomia decisionale del paziente o al consenso informato, che sono i pilastri etici e legali delle decisioni mediche quando la persona interessata è cosciente. La questione più dibattuta è stata che il criterio eticamente migliore da preferire non sarebbe più quello che chi arriva primo all’unità di terapia intensiva viene trattato per primo, sarebbe la “maggior speranza di vita”, in base ad età e all’eventuale presenza di altre patologie.
Una discriminazione?
Tale criterio, percepito come se gli anziani e i più malati perdessero diritti di fronte a persone più giovani e sane, suscita reazioni emotive e in parte etiche, per cui è necessario che le procedure decisionali siano fondate sull’appropriatezza degli interventi in funzione del singolo caso clinico, e siano attentamente monitorate e registrate. Inoltre, vi deve essere massima trasparenza e coinvolgimento del contesto sociale: le decisioni di razionare i trattamenti scarsi disponibili sono la regola in medicina e sono presi ogni giorno in modi impliciti nei reparti di terapia intensiva dai medici. Ebbene, i criteri vanno resi espliciti. Perché non si tratta di compiere scelte sulla base di un valore assegnato alla vita di diverse persone, ma di riservare risorse, che potrebbero essere scarsissime, a chi ha più probabilità di sopravvivenza. Solo in questo modo gli investimenti sociali nella realizzazione di una prestazione sanitaria producono il massimo di benefici per il maggior numero di persone.
La pandemia è usata per introdurre leggi più restrittive.
È sempre stato così. Si può persino dire che la moderna burocrazia nasceva nei secoli dopo la Grande Peste del Quattrocento per esigenza di raccogliere ed elaborare dati utili allo scopo di evitare qualcuna delle continue ondate di pestilenze. Tra fine ’ 700 e seconda metà ’ 800 in Europa gli Stati prendevano forma in senso liberale o conservatore anche sulla base del rischio di contagio o delle credenze mediche relative alla natura del contagio. La psicologa sociale Michele Gelfand ha pubblicato degli studi dove spiega che le società di fronte a minacce esterne tendono a evolvere verso la rigidità, nel senso che producono più leggi che interferiscono o limitano le scelte delle persone, generando un ordine sovrimposto. Allo stesso tempo queste società sono meno tolleranti. Obiettivamente, come dimostrano i casi di Cina, Singapore, rispetto all’emergenza attuale sono più efficaci delle società aperte o “liberal”; le quali però inseguono in questi frangenti le società rigide e rischiano di perdere di vista i valori fondamentali del mondo liberale, da cui è scaturito quello che abbiamo apprezzato fino a tre mesi fa.
Ravvede panico nell'approcciare all'emergenza sanitaria e nella caccia all’untore?
L’isterismo o la paranoia generale non mi stupiscono. Tutti abbiamo paura di morire, temiamo per i nostri cari, e quindi vogliamo che si metta in atto qualunque genere di misura per eliminare la minaccia. Abbiamo paura delle epidemie perché sono molto recenti rispetto al nostro orizzonte cognitivo plasmato dall’evoluzione biologica. Nel cervello funziona un’euristica del contagio che serviva ai nostri antenati cacciatori- raccoglitori per evitare contatti con oggetti contaminati, pur non sapendo nulla della natura della contaminazione. Quando siamo transitati verso società molto numerose, sono entrate in gioco le epidemie e quell’euristica è diventata un rilevatore di allarme costantemente stimolato e che scatena paura e ricerca di potenziali untori. I capri espiatori rientrano nelle dinamiche di ricerca di qualche colpevole/ causa quando la situazione minacciosa appare senza controllo. Paradossalmente in passato, quando esistevano pochi dati e spiegazioni, le risposte erano più standardizzate.
Oggi invece?
Viviamo in società che premiano atteggiamenti di scetticismo o di sottovalutazione del rischio: per cui le persone possono trasgredire le raccomandazioni sanitarie. Qualcosa di simile si può dire sui decisori politici e i loro consulenti tecnici, che in passato cercavano comunque di salvaguardare le conquiste economiche o civili di una società. Nel caso della pandemia in corso, curiosamente no. Ogni intervento si è concentrato sul virus e sull’aspetto sanitario e, pur in assenza di tanti dati affidabili, si prendono decisioni che possono avere ricadute che andranno gravemente al di là di una pandemia, che non si sa quando finirà.
Anche in questa occasione, sono nate teorie del complotto rispetto alla nascita e diffusione del virus.
Apparentemente ne sono circolate meno di quelle che mi aspettavo. Cento o duecento anni fa saremmo stati inondati. È vero che io non uso i social, ma navigo molto nell’universo di google. Forse certe discussioni segregano nelle echo chambers, cioè i complottisti si chiudono all’interno di riserve dove si parlano tra loro e le ipotesi farneticanti circolano ma si vedono di meno fuori dai social.