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Riccardo Cucchi. Ai tempi di Caressa e Pardo, rischi di dimenticare una delle colonne di Tutto il calcio minuto per minuto, l’ultimo tassello del progetto originale - a memoria è l’ultimo ad aver lavorato col nucleo storico - che a San Siro, in occasione di Inter-Empoli, con uno splendido “è davvero tutto” ha fatto la sua ultima radiocronaca. Per raggiunti limiti d’età se ne va in pensione. In un calcio moderno che considera anacronistici lo stadio, la radio, in cui un coro ripreso da youtube vale più di una coreografia di tifosi. E invece no. Perché la maglia numero 10 regalata a Cucchi (laziale, peraltro), lo striscione in curva che riporta le sue parole a compimento del triplete nerazzurro nel 2010, la commozione che ha investito questo straordinario professionista, ci dice che il calcio moderno piace ai presidenti, ma non ai tifosi. E forse neanche ai calciatori se è vero che Nainggolan, l’ultimo dei mohicani (non solo per la cresta) che ancora cerca un rapporto diretto con i tifosi, si è visto tendere un trappolone da due che con uno smartphone hanno abusato della sua fiducia. Ci manca il calcio di un tempo. Quello delle 16 squadre in cui se Pisa e Ascoli salivano con i folcloristici Anconetani e Rozzi, davano filo da torcere alle grandi, in cui l’Avellino si faceva 10 anni di serie A e in cui Zico andava a giocare a Udine. Ci manca quel calcio pieno di difetti - doping, calcioscommesse, ingiustizie a mazzi non ce li dimentichiamo - in cui i giocatori non sembravano modelli di Armani o manichini brandizzati, ma baffuti uomini normali senza procuratori a renderli burattini redditizi. In cui avevano fisico da mezzofondisti - alcuni da tennisti, e non è un complimento - e non da centometristi gonfiati, in cui la tecnica contava più della fisicità e la tattica era ancora poesia fatta di fango e invenzione e non da aridi algoritmi. Immaginiamo i sorrisi di chi nuota tra satelliti e digitali terrestri, di chi tifa senza neanche capire cosa vuol dire vivere con le “barriere” nella propria curva, di chi tifa su twitter con meme e critiche al proprio allenatore (immaginate Ottavio Bianchi con twitter: il Napoli non avrebbe mai vinto il primo scudetto, il popolo del web lo avrebbe cacciato dopo Tolosa). Eppure proprio sui nuovi media, scopri un ritorno al passato condito da tanto rimpianto. Su Facebook per esempio trovi Serie A Operazione Nostalgia. Un gruppo con poco meno di mezzo milione di like dove vengono celebrate partite di vent’anni fa, eroi sportivi come Batistuta ma anche come Calori e Materazzi. E Max Tonetto, che se n’è fatto alfiere, è arrivato a organizzare una partita revival con gli eroi di questa pagina meravigliosa. E se si sprecano fiumi d’inchiostro per i profeti del nuovo calcio, per il tiki taka, è il Napoli di Maurizio Sarri ad emozionare, con i suoi giocatori mingherlini, con la faccia da scugnizzo di Insigne, che assomiglia tanto a quelle ali che facevano anche i terzini, con Dries Mertens che con i suoi dribbling impossibili e le sue idee di gioco così folli da essere meravigliose - guardate il secondo gol al Genoa - sembra proprio un fantasista anni ’80, con Pepe Reina che assomiglia tanto ai numeri uno veraci di decenni fa. Siamo in un calcio che cerca le proprietà cinesi, i diritti televisivi americani, in cui l’Africa calcistica viene vampirizzata così come si fa con le sue materie prime. Ma poi ci esaltiamo per le imprese e i gol di Francesco Totti, immortale numero 10 che continua a inanellare record in un calcio che non è più il suo. Ma che lui si prende lo stesso. Perché la sua guasconeria, il suo amore per la maglia saranno fuori dal tempo, ma sono l’anima di questo sport. Molti diranno che è una visione provinciale, noi diciamo solo che è una visione umana e umanistica, in cui sui telefonini trovi molti che hanno i gol dei loro beniamini raccontati da quel genio di Francesco Repice di Radio Rai, un maestro, di chi si commuove pensando agli interventi dalla serie b del maestro Ezio Luzzi, di chi ricorda il bandierone azzurro al San Paolo. Se vai a recuperare in rete le mitiche sintesi di un tempo della Rai che andavano alle 19, trovi migliaia di visualizzazioni e tanta gente che nei commenti rimpiange la contemporaneità delle partite, quegli stadi pieni, i Nedo Sonetti e i Bruno Bolchi e i Carletto Mazzone, oggetto di una venerazione di massa ancora oggi. Perché il calcio ha perso fascino? Semplice, è diventato un talent in campo, un reality fuori. Spiato, con divi che recitano sempre una parte e che tutelano interessi economici troppo elevati, propri e non solo. Ve le ricordate le polemiche tra Maradona e Platini o tra Diego e Gullit? O le partite di beneficienza in cui in un campo di provincia fangoso si trovavano il Pibe e Massimo Troisi? Quegli spogliatoi mitici, raccontati ancora oggi. Da quello diviso della Lazio che è diventato anche uno splendido spettacolo teatrale, “Tommaso Maestrelli, l’ultima partita” con un Massimiliano Vado eccezionale, epico, umanissimo nei panni di Giorgio Chinaglia a quello del Napoli di Diego, in cui a casa di Ciro Ferrara dopo la partita ci si ritrovava per una cantata con Pino Daniele. [embed]https://youtu.be/HfnNZPAmTsA[/embed] Lo capisci da programmi tv come Sfide o da libri come Figumaniac, in cui attori, scrittori, registi e professionisti usano le figurine e la passione per raccontare partite, emozioni, ricordi. Coordinati dal giornalista Stefano Discreti e sotto l’egida di Max Bruno, che con un Rocco Papaleo telecronista antitedesco in Confusi e Felici ci ha regalato, in chiave comica, un pezzo sulla rivalità meravigliosa italoteutonica da Oscar. E come non citare Il resto della settimana di Maurizio De Giovanni, che già aveva raccontato i trionfi napoletani d’un tempo, in cui teorizza la potenza e la profondità del tifo come elemento culturale imprescindibile di una civiltà, guardandolo da un bar. La verità è che “no al calcio moderno” è passato come un messaggio degli ultras, spesso condizionati da interessi meschini nati proprio in quel calcio antico (biglietti gratis, merchandising parallelo, professionisti del tifo che con la curva hanno guadagnato) ma è quello che sentiamo tutti. C’è qualcosa che non va in questo football che ha perso il fascino dell’epica per una messa in scena kolossal senz’anima. In cui forse l’ultimo eroe è stato Eric Cantona, raccontato addirittura da Ken Loach ne Il mio amico Eric. In cui la febbre a 90° sta scendendo precipitosamente. Ora scusate, ma devo salutarvi, devo partire. Ho un biglietto per Madrid, scalo a Barcellona. Mercoledì sarò al Santiago Bernabeu. Non potevo vedermela in tv, no.