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Alla carcerazione del rapper Pablo Hasel, avvenuta in Catalogna mercoledì per avere questi insultato la famiglia reale e “glorificato il terrorismo” con una sua canzone, sono seguiti scontri non solo nelle città catalane, ma anche a Madrid. I dimostranti chiedono libertà per Hasel ed ottengono 38 arresti e 55 feriti in una sola notte. La Audiencia National, che aveva condannato il cantante a 9 mesi di carcere, vi aveva aggiunto sei anni di “inabilitazione” ( a tenere spettacoli) e trentamila euro di multa. Il rapper, come quasi sempre i veri rapper, era andato giù duro, con precise accuse politiche contro la famiglia reale ed in particolare contro il vecchio Juan Carlos, definendolo “el Bibòn” ( assonanza col suo nome di casato, Borbòn) che significa “il cretino”. La “glorificazione del terrorismo” sembra riferirsi ad alcuni suoi versi che inneggiano a terroristi dell’Eta, morti ormai da tanti anni. Reati di opinione, come è evidente, per di più reati che si innestano in una libertà di espressione che sempre dovrebbe essere riconosciuta ad un cantante, anche quando le sue invettive sono particolarmente urticanti.
Ma tant’è: l’insulto al Presidente è, per esempio, un reato relativamente nuovo introdotto in Turchia durante il biennio dell’emergenza post- tentato colpo di stato e poi stabilmente impiantato nella normativa penale. In meno di tre anni ha portato a processo e a condanne più o meno pesanti centinaia fra giornalisti, blogger, cantanti e autori e scrittori. Ma lì le cose sono chiare: non siamo in una democrazia e il presidente è il capo politico. Dunque la repressione è, per così dire, prevista e d’ordinanza. Naturalmente, anche in Turchia l’insulto al presidente è generalmente accompagnato dal reato di fiancheggiamento del terrorismo. Ma, di nuovo, siamo nella normale ( per la Turchia) dinamica politica: opposizione, repressione, condanne ecc. ecc.
Si pensava che la Spagna, facendo parte parte dello schieramento occidentale potesse aderire strettamente ad un liberalismo democratico. E’ vero: il processo contro i capi della rivolta indipendentista catalana del 2017 per avere indetto un referendum sull’indipendenza della regione, con le pesanti condanne comminate dalla solita Audiencia National, stavano lì a dimostrare che i meccanismi democratici stentano ancora ad affermarsi in Spagna, a quasi cinquant’anni dalla morte di Franco. Ma Hasèl con il suo rap non se la prende con chi è al governo, ma semmai con chi esercitando una parte del potere, non esita a compromettersi in vario modo: si ricordi le vicende giudiziarie per corruzione dell’infanta.
Libertà di espressione, dunque, invochiamo per Pablo Hasèl. Ma poi ci vengono in mente gli orrendi testi di moltissimi reggeton sudamericani, che inneggiano alla violenza contro le donne, all’odio omofobo persino al dileggio dei portatori di handicap, degli ebrei e chi più ne ha più ne metta. E allora dobbiamo riflettere: Hasèl libero, certo. Libertà di espressione, sicuro. Ma anche arginare i discorsi di odio. Difficile trovare una linea di confine, che però deve esistere. Sta a noi trovarla. Ma come è difficile la democrazia!