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Le fotografie che bucano l'indifferenza Viviamo subissati dalle immagini in movimento. Non c’è più solo la televisione, ma i videogiochi, le storie social, i video degli influencer. Sembra di far parte del film, profetico, di Michelangelo Antonioni, Blow up, in cui l’immagine esplodeva disintegrandosi e disintegrandoci. Più vediamo, meno capiamo. Meno capiamo, più vediamo.
Sono passati ben 22 anni dal libro denuncia di Giovanni Sartori, Homo videns: un atto di accusa al potere della televisione e della sua capacità di condizionare e modificare il pensiero. Eppure in questo quadro desolante, la fotografia - considerata la parente povera dell’immagine in movimento - si sta prendendo una vera e propria rivincita.
Se il fluire televisivo ci rende assuefatti al dolore e alla morte, spesso solleticando il nostro voyeurismo, la fotografia che fissa il tempo in un unico punto scuote gli animi, smuove le coscienze, racconta meglio di qualsiasi film l’epoca in cui stiamo vivendo. Negli ultimi anni è accaduto spesso.
Aylan, America e Primavalle Il corpicino di Aylan, il bimbo in fuga dalla guerra in Siria, ritrovato nelle coste turche e fotografato da Nilüfer Demir, ci parla ancora: ci chiede conto della sua morte, del suo dolore e di quello del suo popolo.
Quella immagine cambiò l’atteggiamento di molti Paesi europei, in testa la Germania, nei confronti del dramma siriano e ancora oggi è considerata un monumento contro il razzismo o i respingimenti dei migranti. Nessun testo, nessun film, niente potrà mai essere così potente. Se non altre immagini, altri scatti.
Come il padre e il figlio annegati nel Rio Grande, negli Usa, poche settimane fa. O il bambino che, durante lo sgombero della scuola occupata da trecento persone senza casa a Primavalle, è stato immortalato mentre va via con i libri. Una immagine unica, sconvolgente.
Allo stesso tempo un atto di accusa contro il potere e una luce di speranza rivolta verso il futuro.
La domanda è perché le foto abbiano questo potere unico, quasi magico. Secondo il grande semiologo Roland Barthes, che alla fotografia ha dedicato il bellissimo saggio La Camera chiara, la foto è caratterizzata da due piani. Lo studium che attiene al voler del fotografo, al suo punto di vista, alla sua costruzione semantica. Poi c’è il punctum: è ciò che rende la foto quella foto. È ciò che noi indichiamo con il dito, che ci fa tornare quasi bambini. È qualcosa che non sempre riusciamo a verbalizzare ma che fa parte del nostro sentire, della nostra parte più profonda.
È forse in questa spiegazione che troviamo una prima risposta al perché le foto abbiano così tanta forza. La foto smuove le coscienze perché isolando un momento stabilisce un rapporto diretto con chi guarda, un rapporto che tocca corde altrimenti irragiungibili.
Nella foto dei bambini morti, ritrovati con il corpicino rivolto, il dito si piega e diventa un atto di accusa contro l’indifferenza, contro chi nel mondo occidentale ha permesso che un orrore del genere potesse realizzarsi. La foto ferma il tempo, lo cristallizza. Ma solo in apparenza. Perché all’interno di ogni singola immagine la storia si dipana lo stesso, ma fuori dalla furia distruttrice del flusso post moderno. È un tempo diverso, più vicino ai sentimenti ma anche a un pensiero non addomesticato.
In cuor nostro, anche se con rammarico, forse pensavamo che Robert Capa e la sua compagna Gerda Taro, protagonista del bellissimo romanzo La ragazza con la Leica di Helena Janeczek, fossero figure superate, legate al passato.
Pensavano che la fotografia fosse stata uccisa da una tv killer. Invece la fotografia continua a vivere e a farci indignare, soffrire, amare. Un bravo fotografo, a differenza di un giornalista, non può prendere l’agenzia e “lavorarla” come si dice in gergo, deve andare sul posto, vedere con i suoi occhi. E una volta che si vede e lo si restituisce agli altri, è difficile restare zitti e girarsi dall’altra parte.