PHOTO
Dice Vito Teti, che insegna Antropologia Culturale all’università di Cosenza, che «fra vent’anni la Calabria avrà perso cinquecentomila abitanti e diventerà un deserto, come lo fu nel periodo aragonese». Per la verità, cinquecentomila abitanti li ha già persi la Sicilia, fra il 2002 e il 2017 – praticamente come se una città come Catania fosse stata inghiottita nel nulla, scomparsa dalla geografia. Teti ha scritto qualche anno fa Pietre di pane. Un'antropologia del restare – un titolo che veniva da Corrado Alvaro, il grande scrittore calabrese a cui le pietre di fiumara sembravano forme di pane e le pagnotte di pane duro sembravano pietre, dove si intrecciavano la fatica e il rito, il radicamento e l’asprezza – in cui si ragionava sulla restanza, un concetto preso in prestito da Derrida. Dice ancora Teti: «Restare non è un fatto di pigrizia, di debolezza: dev'essere considerato un fatto di coraggio. Una volta c'era il sacrificio dell'emigrante e adesso c'è il sacrificio di chi resta. Una volta si partiva per necessità ma c'era anche una tendenza a fuggire da un ambiente considerato ostile, chiuso, senza opportunità.
Oggi i giovani sentono che possano esserci opportunità nuove, altri modelli e stili di vita, e che questi luoghi possono essere vivibili. L'etica della restanza è vista anche come una scommessa, una disponibilità a mettersi in gioco».
Io non so se padre Garau della parrocchia di San Paolo Apostolo a Borgo Nuovo – il quartiere popolare conficcato nel cuore della città di Palermo – abbia mai sentito parlare di Vito Teti e in fondo poco conta, ma è attorno a lui che è cominciata la lotta per la restanza, la mobilitazione contro l’emigrazione, quella giovanile in particolare. Padre Garau con i suoi parrocchiani fa i flash- mob al Politeama o le fiaccolate di notte al teatro Massimo, nel cuore della movida, e ha messo in piedi il movimento delle “valigie di cartone”. Pian piano, le iniziative hanno raccolto l’attenzione e la partecipazione di decine di associazioni e centinaia di giovani – con mobilitazioni nelle università di Palermo, Catania, Messina e la sensibilizzazione delle istituzioni. Sono decine i comuni, grandi e piccoli, che hanno approvato una delibera di orientamento, in cui la questione dell’emigrazione è posta come un problema enorme su cui intervenire: Contessa Entellina, Balestrate, Giuliana, Salemi, Lercara Friddi, Palazzo Adriano, Santo Stefano Quisquina, Ciminna, Bolognetta, Milazzo, Cinisi, Bagheria, Corleone, Piana Degli Albanesi, Partanna, Santa Cristina Gela, Ventimiglia di Sicilia, Palermo, Messina – e l’AnciSicilia. E decine e decine sono state le iniziative di mobilitazione, che va coinvolgendo anche intellettuali, artisti. E ieri, a Palermo, s’è tenuta una nutrita manifestazione per le vie della città, da piazza Verdi fino alla cittadella universitaria di Viale delle Scienze.
Sul sito di antudo, associazione per l’indipendenza che ha partecipato all’evento, si legge: «Prima del 1861 gli emigrati siciliani erano alcune decine: piccoli gruppi di contadini o di esiliati politici. I primi partivano alla ricerca di terre da coltivare, i secondi dovevano lasciare l’isola per sottrarsi alla repressione borbonica o perché condannati all’esilio. In quegli anni non esisteva l’emigrazione “economica”, come oggi si intende. I trasferimenti avvenivano solo all’interno dell’isola: ci si spostava dalla campagna ai centri urbani, dalle terre demaniali a quelle baronali o viceversa, dall’entroterra alle aree costiere. Lo scenario si capovolse nel 1861. Nel quadro mutato dei rapporti nazionali e internazionali un gran quantità di siciliani divenne merce di scambio tra le nuove potenze. Lo storico Renda parla di una “esplosione migratoria”, in considerazione dei numeri raggiunti e mai registrati prima del 1861.
Nell’ultimo ventennio del secolo emigrarono in America oltre centomila siciliani. La migrazione si legava tanto alla crisi economica degli anni ’ 60 e ’ 70 del XIX secolo, quanto alla repressione seguita ai moti popolari, che continuarono anche dopo la cosiddetta “unificazione nazionale”.
Come scrive Enrico Deaglio in Storia vera e terribile della Sicilia: “Avvenuta senza fanfare e poco compresa, allora come oggi, quella siciliana verso la Louisiana e il Mississipi fu una deportazione di esseri umani concepita tra governi, allo scopo di realizzare uno dei più foschi progetti dell’era moderna. La Sicilia aveva aumentato di un milione e mezzo i suoi abitanti dai tempi dell’Unità d’Italia. I siciliani erano troppi, tra loro circolavano strane idee, volevano la terra, si ribellavano. I padroni americani si trovavano alle prese con un problema analogo. La guerra aveva affrancato quattro milioni di schiavi che ora non volevano più lavorare sotto la frusta.
Bisognava liberarsene, trovare nuovi schiavi”. Li trovarono in Sicilia».
Oggi, ogni 12 mesi ventimila persone abbandonano la Sicilia. Il calo di residenti – come emerge dal rapporto La demografia delle aree interne della Sicilia a cura del Servizio Statistica e Analisi Economica della Regione Siciliana – riguarda principalmente cinque aree interne dell’Isola: Sicani, Madonie, Nebrodi, Calatino e Simeto- Etna. Queste aree contano un totale di 65 comuni. In essi dal 1951 a oggi la popolazione si è ridotta di 147.479 unità. Solo negli ultimi anni, dal 2011 al 2019, 14mila abitanti in meno. Sono numeri da esodo.
Se si analizzano i grafici che tengono conto dell’età, al momento della partenza, di chi emigra, ci si rende facilmente conto che il fenomeno riguarda principalmente una popolazione giovane e qualificata. Ad esempio, all’interno delle anticipazioni del rapporto Svimez 2019 – che prende in esame non solo la Sicilia, ma tutto il Mezzogiorno – ritroviamo la seguente sintesi dei dati: nel periodo compreso tra il 2002 e il 2017 le persone emigrate dal Sud Italia verso il Nord sono state oltre 2 milioni, di cui 132.187 nel solo 2017. Di queste ultime 66.557 sono giovani ( 50,4%, di cui il 33,0% laureati, cioè 21.970).
Il tessuto produttivo siciliano è inefficiente, l’economia in grande stallo, i settori principali per l’Isola, primo fra tutti quello agricolo, sono in crisi. La Sicilia è nelle primissime posizioni in Europa per tasso di disoccupazione giovanile con l’allarmante quota di 53,6 giovani ( di età compresa fra i 15 e i 24 anni) ogni cento in cerca di un’occupazione.
C’è un detto antico in Sicilia: «Cu nesci, arrinesci» – per avere fortuna nel mondo, per arrinesciri, devi uscire, partire. Non so se si possa comprendere in questo “motto” l’emigrazione degli anni Cinquanta e Sessanta, quando dalla Sicilia, dal Sud, con le valigie di cartone, si partiva per le fabbriche del triangolo industriale – Miano, Torino, Genova – o verso il nord- Europa dove c’era bisogno di braccia per l’industria. Quel detto antico ora si ribalta: Si resti arrinesci – perché le cose cambino, per fermare l’emigrazione, per potere creare opportunità nuove, per continuare a amare e trasformare i luoghi delle proprie radici, bisogna restare.
E lottare.