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La pandemia da coronavirus ha colto tutto e tutti impreparati, e non vi è da stupirsi se anche la risposta del sistema penale si stia dimostrando inadeguata o comunque lacunosa.
Nel Codice penale l’articolo 452 punisce con la pena del carcere da tre a dodici anni chiunque cagiona per colpa, mediante la diffusione di germi patogeni, un’epidemia da cui deriva la morte di più persone, ma il reato non è applicabile perché punisce solo chi cagiona un’epidemia, mentre nella situazione italiana l’epidemia è già in atto da alcuni mesi. Nell’articolo 452 manca cioè un secondo comma che preveda una pena meno severa - ad esempio da tre mesi a tre anni di reclusione, cosi attribuendo ampia discrezionalità al giudice a seconda della gravità del fatto - per chi non osserva le misure adottate per contrastare o limitare l’ulteriore diffusione di una epidemia già esistente.
Nel caso italiano non è stato individuato, e non vi è comunque alcuna possibilità di individuare qualcuno che abbia colposamente cagionato l’epidemia da Coronavirus. Le misure restrittive della libertà di circolazione, disposte con ordinanze e decreti del presidente del Consiglio dei ministri e del ministro della Salute, sono state prese insieme a numerose altre nel corso del mese di marzo quando il contagio era già in piena espansione e sono ora sintetizzate nel decreto legge 25 marzo 2010 n. 19, destinato a essere quanto prima convertito in legge. Va subito detto che, sia pure dettate dalla gravissima emergenza che il Paese sta attraversando, le misure restrittive rispettano i principi di legalità, posto che la stessa Costituzione prevede che il diritto costituzionale di circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale può essere limitato dalla legge per motivi di sanità o di sicurezza.
Nei confronti di chi non osserva le misure restrittive – ad esempio non mantiene la distanza di sicurezza in coda davanti a un supermercato, passeggia per le strade in gruppo o senza giustificato motivo – si applicava la contravvenzione dell’inosservanza di provvedimenti legalmente dati dall’autorità per ragioni di igiene, punita dall’articolo 650 del codice penale con l’arresto sino a tre mesi o con l’ammenda sino a 206 euro. Il decreto legge del 25 marzo ha peraltro stabilito che tali sanzioni sono sostituite da una sanzione amministrativa da 400 a 3000 euro, irrogata dal Prefetto. Forse la ragione della depenalizzazione va ricercata nella norma che prevede espressamente che le nuove sanzioni amministrative si applicano retroattivamente anche alle violazioni commesse prima dell’entrata in vigore del decreto legge. A ben vedere non vi era però alcuna esigenza di eludere il principio della irretroattività della legge penale incriminatrice ricorrendo ad una sanzione amministrativa, posto che l’inosservanza delle misure restrittive avrebbe potuto continuare ad essere sanzionata dall’art. 650 del codice penale, in vigore da quasi un secolo, per la precisione dal 1930. Oltretutto l’articolo 650 prevede anche l’arresto sino a tre mesi, pena ben più temibile della mera sanzione amministrativa pecuniaria. In definitiva le modifiche contenute nel decreto legge comportano elementi di confusione e di incertezza interpretativa del tutto inopportuni nel corso di un’emergenza che sta già mettendo a dura prova le forze deputate a mantenere l’ordine e la sicurezza. Sarebbe stato sufficiente inserire – come già accennato – un secondo comma nell’articolo 452 del codice penale, al fine di punire con una specifica e più severa sanzione anche la mera inosservanza delle misure disposte dalle autorità competenti per limitate e contenere la diffusione del Coronavirus. In altre parole, non vi era alcun bisogno di inseguire l’irraggiungibile e impossibile obiettivo di colpire retroattivamente con una sanzione amministrativa le decine di migliaia di persone sinora denunciate per violazioni ascrivibili più che altro alla mancanza di consapevolezza e di senso di responsabilità di fronte alla dilagante gravità dell’epidemia e alla pericolosità dei propri comportamenti.