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Non solo persone intubate negli ospedali e cittadini rinchiusi in casa terrorizzati dal contagio. Il Coronavirus rischia di mietere altre vittime invisibili: i poveri. Emarginati, senza fissa dimora, migranti sono i più esposti al pericolo, indipendentemente dal contagio. Per rendersene conto basta fare un giro tra le mense Caritas e nei ricoveri notturni, strutture al collasso, che i decreti restrittivi imposti giustamente dal governo hanno reso di difficile accesso.
«Abbiamo raggiunto un accordo per continuare a distribuire i pasti», ci spiegano dall’ufficio Comunicazione della Caritas romana, «ma dopo l’ultimo decreto non possiamo più servirli all’interno delle nostre strutture».
Quasi impossibile garantire il rispetto delle norme sulla distanza di sicurezza tra un commensale e l’altro, l’unica alternativa è preparare delle porzioni preconfezionate da consumare in strada, facendo comunque attenzione a evitare assembramenti al momento della distribuzione. «Chiediamo in continuazione di rimanere a un metro di distanza, ma è davvero complicato. Chi ha la fortuna di avere un’abitazione torna a mangiare a casa, agli altri non resta che rimanere all’aperto».
Sì, all’aperto, dove la maggior parte degli avventori è già abituata a vivere. Ed è proprio questa esposizione al rischio quotidiano che rende i senza fissa dimora, spesso vittime di un sistema immunitario già fragile, i più vulnerabili di fronte a un eventuale contagio, attivo e passivo. Una popolazione sommersa che solo a Roma conta quasi 8 mila persone. E tra i danni collaterali dei decreti emergenziali c’è la chiusura dei bar e delle rosticcerie, dove chi non ha niente riusciva a ottenere cibo gratuito a fine serata, una rete di protezione sommersa ma indispensabile.
Le organizzazioni di volontariato fanno i salti mortali per garantire i servizi essenziali alle persone in difficoltà, ma gli stessi utenti sembrano smarriti e non affollano più le mense come prima. Nella sola struttura di Colle Oppio, al centro della Capitale, abituata a servire circa 500 pasti a pranzo, da qualche giorno non si presentano «più di 400 persone, ma anche qualcosa in meno». Numeri in calo anche alle Caritas di Ostia e di Via Marsala, alle spalle della stazione Termini. «Alcuni hanno probabilmente paura del contagio ed evitano di venire», è una delle spiegazioni. Non l’unica, però, perché la diffusione del Covid ha imposto la chiusura dei centri d’ascolto, il primo presidio sul territorio, spesso l’unico, nella lotta al disagio sociale. È al centro d’ascolto che i cittadini si rivolgono per accedere ai servizi della Caritas: pasti, beni di prima necessità, a volte semplice conforto. Diretta conseguenza della serrata: lo stop agli ingressi nei centri d’accoglienza, a cominciare dall’ostello “don Luigi Di Liegro”, oltre 200 posti letto. «Non possiamo accettare nuove richieste e abbiamo bloccato le uscite. A chi è dentro chiediamo di non andare all’esterno per rispettare le regole sull’emergenza». Niente turn over per avere un tetto sulla testa, dunque, chi rimane fuori deve provare a bussare ad altre porte.
Ma i problemi provocati dal virus non finiscono qui per chi vive senza protezioni economiche e sociali. Oltre alle mense e ai ricoveri, infatti, rischia di andare in tilt il sistema dei “giri notturni” per offrire beni di prima necessità e assistenza medica ai clochard. «I volontari stanno diminuendo», spiegano ancora dalla Caritas, comprendendo le paure di chi non se la sente di esporsi al rischio contagio. L’esercito spontaneo degli aiutanti notturni è infatti composto da molti over 60, pensionati altruisti ma consapevoli di rientrare tra le fasce generazionali più vulnerabili. Per scongiurare il peggio interviene direttamente la Santa Sede, che ieri ha donato 100mila euro alla Caritas Italiana per un primo significativo soccorso. «Tale somma vuol essere un’immediata espressione del sentimento di spirituale vicinanza e paterno incoraggiamento da parte del Santo Padre verso tutti quei servizi essenziali a favore dei poveri e delle persone più deboli e vulnerabili della nostra società», si legge su una nota del Vaticano.
Ma a prendersi cura degli ultimi c’è anche la comunità di Sant’Egidio, presente su tutto il territorio nazionale, con programmi di assistenza di ogni genere. «Ci prendiamo cura dei senza fissa dimora ma anche degli anziani che non possono uscire di casa: li contattiamo telefonicamente per vedere se hanno bisogno di qualcosa e se è necessario portiamo a casa farmaci o la spesa», spiega Roberto Zuccolini, portavoce della Comunità. Per il momento Sant’Egidio non ha subito gravi traumi dall’entrata in vigore dei decreti. Mense e ricoveri continuano a funzionare a pieno ritmo. «Per la distribuzione dei pasti siamo riusciti a distanziare bene i tavoli, abbiamo imposto un lavaggio accurato delle mani prima dell’ingresso in sala, e noi continuiamo a svolgere il nostro servizio con le mascherine al volto», dice ancora Zuccolini. A pieno ritmo anche i centri per lo smistamento dei pacchi alimentari e dei generi di prima necessità, grazie alla presenza assidua dei volontari, magari spostati a gestire l’emergenza ma provenienti da altri progetti.
E chi non trova un tetto all’Ostello della Caritas può sempre bussare alle porte della chiesa di San Callisto, a Trastevere, dove la Comunità di Sant’Egidio organizza d’inverno l’accoglienza contro il freddo. «In tre anni sono passate tantissime persone dalla Chiesa che a sera si trasforma anche in una piccola mensa, prima di diventare ricovero notturno», racconta il portavoce Zuccolini. «L’unica differenza rispetto a prima è che abbiamo distanziato ulteriormente i letti, con misure igienico sanitarie più stringenti, ma funziona bene. Almeno a Roma. Che io sappia solo a Pescara abbiamo dovuto chiudere un ricovero notturno», spiega. «Ma lasciare la gente in strada non è un bene. La nostra azione aiuta anche a contenere il virus, perché oltre a fornire un tetto informiamo le persone che si rivolgono a noi e imponiamo norme igieniche», conclude Zuccolini. La lotta all’esclusione e quella al contagio non possono che andare di pari passo.