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Adriana Faranda e Agnese Moro
Agnese Moro, Adriana Faranda: vittima e carnefice. Eppure da oltre diciassette anni, la figlia dell’ex presidente della Democrazia Cristiana, ucciso dalle Brigate rosse nel 1978, e una delle componenti del gruppo che lo ha rapito, tenuto in prigionia per 55 giorni e poi ucciso, si incontrano nell'ambito di un percorso di giustizia riparativa, e parlano insieme di quella dolorosa esperienza. Chi ha provocato il dolore e chi lo ha subìto insieme per lanciare un messaggio di riconciliazione. Come dice una stupenda frase del poeta persiano Rumi - che conclude la serie britannica “The Victim”, dove una madre perdona chi gli ha ucciso il figlio - «Al di là delle idee di male e di giusto c'è un campo: ti incontrerò lì».
Questo terreno è stato tracciato nel 2007 da un gruppo di persone, sia vittime sia membri della lotta armata, guidati dal padre gesuita Guido Bertagna insieme ad Adolfo Ceretti, professore ordinario di Criminologia all’Università Cattolica di Milano e dalla sua collega Claudia Mazzucato, docente di Diritto penale. I tre insieme nel 2015 hanno curato “Il libro dell’incontro - Vittime e responsabili della lotta armata a confronto” (Il Saggiatore), che racconta appunto il cammino di Agnese Moro, di Giovanni Ricci, figlio di uno degli agenti uccisi in via Fani il 16 marzo 1978, e di altre vittime e altri ex militanti della lotta armata.
Il professor Ceretti ha sottolineato più volte: «Nella comprensione della giustizia le vittime non erano considerate: ci si concentra solo sul colpevole. Si ignorava il vissuto della vittima, imprigionata in un eterno presente che alimenta l’odio. L’odio dà un ruolo a sé e al nemico. La giustizia riparativa cerca di liberare vittime e carnefici dai loro inferni».
La figlia di Moro per 31 anni dopo l’uccisione del padre aveva scelto «la strategia del silenzio, perché non sei in grado di raccontare che cosa ha rappresentato per te l’accaduto», aveva spiegato in un dibattito organizzato dalla Caritas, ma l’incontro con il gesuita padre Guido Bertagna – che si occupa appunto di giustizia riparativa, in particolare in riferimento ai crimini commessi negli anni del terrorismo – l’ha convinta che non fosse il silenzio né «l’indossare la maschera della vittima che deve soffrire per sempre senza trovare consolazione» la cura più efficace per affrontare il proprio dolore. «Io non dimentico cosa mi è successo e non lo considero meno terribile di allora. Dopo aver stretto la mano agli artefici di quel dolore, però, dopo aver potuto chiedere loro “perché l’hai fatto?” so che tutto è tornato al suo posto. Siamo seduti uno vicino all’altro, siamo amici, ci preoccupiamo per le famiglie altrui: c’è stata una frattura ma oggi è necessario che sia così. Questa per me è il senso profondo della giustizia. Pensavo fossero mostri, senza cuore, senza pietà. E lo sono anche stati. Ma poi ha scoperto in loro un dolore infinitamente peggiore del mio che li fa essere totalmente disarmati nei nostri confronti. Ho imparato da loro che se tu vuoi ascoltare qualcuno e poi parlare ti devi disarmare da pregiudizi e rabbia. Incontrare chi ha fatto del male è un atto di amore verso sé stessi, perché trovarsi faccia a faccia con chi ha compiuto atti tremendi di violenza è l’unico modo possibile per uscirne».
Secondo Agnese Moro «la giustizia riparativa è avere a che fare con l'irreparabile. L'irreparabile è anche pericoloso perché trattiene il passato. Il passato non passa mai: tutti i giorni mio padre esce di casa, viene rapito, le care persone della scorta vengono uccise, resta prigioniero e viene ritrovato ucciso 55 giorni dopo. Questo porta con sé tanti sentimenti, tra cui anche il senso di colpa di non averlo salvato». Agnese Moro ha spiegato nei suoi incontri pubblici come «dopo la violenza, quando è arrivata la giustizia, non è cambiato niente. Non si è spezzata la catena del male. La giustizia aveva fatto il suo corso ma le mie ferite erano rimaste uguali. Si dice: il tempo guarisce tutto. Non è vero. Il tempo incancrenisce, solidifica le cose, non permette loro di evolversi. Io soffrivo la dittatura del passato, quel passato che si ripeteva ogni giorno».
Poi il giro di boa e l’incontro con chi fece parte del gruppo che spezzo la vita di suo padre: Adriana Faranda venne arrestata il 30 maggio 1979. Durante gli anni 80 si è dissociata dal terrorismo beneficiando successivamente delle riduzioni di pena previste dalla legge 18 febbraio 1987 n.34, e uscendo dal carcere nel 1994, dopo quindici anni di detenzione. L’ex brigatista aveva necessità di confrontarsi con il proprio passato e con «il dolore che c'era negli altri. Solo chi ha provato un dolore come quello di Agnese può paradossalmente capire quello che ho provato io. Sono dolori diversissimi ma che si accomunano, io mi sono sentita compresa da Agnese come da nessun altro». In chi il trauma e il dolore lo ha causato c’è il desiderio di «sentirsi responsabili non più per un reato che hai compiuto, e quindi del passato, ma anche del futuro – ha spiegato nei vari incontri Adriana Faranda -, nella consapevolezza che qualunque scelta compiamo ha delle conseguenze che abbracciano molte più persone di quante immaginiamo».
Ecco allora «la necessità di dire “mi dispiace” a chi si è ferito irrimediabilmente», ha raccontato più volte, facendo dell’esperienza del carcere, «dove molti vivono solo nell’attesa di qualcosa che deve venire da fuori senza mai sperimentare una evoluzione interiore», una presa di coscienza e di responsabilità. Da questo è derivato per Faranda «il bisogno di confrontarsi interamente con il mio passato», attraverso «il confronto con il volto delle persone che hanno subito le conseguenze delle mie azioni, e ben venga il rimprovero: serve a capire quanto ancora di quella Adriana c’è e quanto invece di me si è trasformato».