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“Sindrome da ingresso in carcere”, “disculturazione”, “vertigine da uscita”, sono concetti coniati dalla medicina penitenziaria riguardanti i detenuti che contraggono patologie psichiatriche a causa dell’ambiente carcerario. Un tema sviscerato grazie all’approfondimento dell’associazione Antigone realizzato assieme al Sism, il Segretariato Italiano Studenti di Medicina. Maddalena Di Lillo di Antigone ha riportato accuratamente questa ricerca, sottolineando che all’interno di un carcere, la salute mentale è più vulnerabile di quanto non accada nella società libera. Sono diversi gli studi che mostrano come nel sistema penitenziario la percentuale di soggetti affetti da patologie psichiatriche sia più elevata che all’esterno. Emerge che anche il genere è un fattore di rischio importante. «Le donne – scrive Di Lillo - sarebbero più esposte degli uomini a questo tipo di patologie. Dei ricercatori dell’Università La Sapienza di Roma hanno mostrato come tra le donne ristrette vi sia un’elevata incidenza di temperamenti patologici. In particolare sono stati messi in luce comportamenti distimici o ciclotimici, ansiosi o irritabili, atteggiamenti di attaccamento insicuro, condotte di evitamento o impulsività».
La ricercatrice sottolinea che, fermo restando che il carcere ha in sé elementi strutturali che favoriscono l’emergere di patologie psichiatriche, «bisogna considerare che spesso le condizioni psico- fisiche di chi incappa nel sistema penitenziario sono precarie già prima del suo ingresso: tra marginalità sociale e patologie psichiatriche vi è un nesso che in carcere si rafforza ulteriormente». I momenti più delicati sono proprio quelli relativi all’ingresso in carcere, perché «la persona – scrive Di Lillo - perde il proprio ruolo sociale, è privata dei suoi effetti personali, di uno spazio personale, della capacita` di decidere autonomamente, del contatto quotidiano con la famiglia e con gli amici. La persona detenuta vive rapporti sociali imposti e diventa dipendente dall’istituzione; sperimenta l’impotenza e la frustrazione, soprattutto delle aspettative». Disturbi d’ansia generalizzata, irritabilità permanente, tutti sentimenti che vengono somatizzati e sfociare in diverse patologie psicosomatiche come la perdita di appetito, di peso, malessere generalizzato e aspecifico, esasperazione dei problemi medici preesistenti, disturbi visivi, tachicardia. «La rabbia – scrive la ricercatrice di Antigone -, laddove non si prosegua un obiettivo tangibile nella vita quotidiana, come spesso accade durante la detenzione, può essere percepita come stato depressivo e, se mal gestita, può condurre a episodi di autolesionismo e suicidio». E poi ci sono le sindromi penitenziarie, quelle patologie psichiatriche che sopravvengono durante la detenzione. Una di queste è la “Sindrome da ingresso in carcere”, disturbo psichiatrico che compare frequentemente tra coloro che hanno un impatto drammatico, ossia tra chi presenta generalmente un grado di cultura maggiore e avverte un divario importante tra il tenore di vita condotto in liberta` e quello carcerario. Oppure la “disculturazione”, che consiste nella perdita di valori e stili di vita posseduti in precedenza, con la conseguenza che la persona detenuta non riesce più ad affrontare le situazioni tipiche della realtà esterna. Così come la “Vertigine da uscita”, una patologia che affiora durante la fase prossima alla scarcerazione. «I suoi pensieri – scrive Maddalena Di Lillo - si focalizzano sulle difficolta` di vita del mondo esterno, sulla possibilita` di commettere ancora reati e sul profondo timore di non essere in grado di ritornare sufficientemente autonomi. Il detenuto che sta per lasciare il carcere sperimenta poi la paura dell’estraniamento, l’incapacità di adeguarsi ai mutamenti della vita sociale e al nuovo contesto dopo la scarcerazione».