Un magistrato che si è trovato a indagare, qualche anno fa, sui rapporti tra società di calcio e frange più estreme del tifo ha affermato che in genere, quando si verificano dei disordini o degli atti violenti ai danni dei tesserati o dei dirigenti, non necessariamente si tratta di una cattiva notizia. Trent’anni di inchieste, infatti, dimostrano che nelle piazze più calde non sempre la quiete da parte delle curve coincide con una situazione sana. Anzi, il più delle volte la tranquillità nasconde una “pax” imposta dagli ultrà a colpi di ricatti e minacce, che regge in quanto foriera di vantaggi economici per i capi-ultrà e per le loro “bande”. Non è un caso che quasi sempre le inchieste sono arrivate quando questa pax è saltata e si sono verificati episodi particolarmente gravi, e nella maggior parte dei casi gli ultrà sono riusciti a riconquistare i propri privilegi, dopo averli temporaneamente persi.

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Ma Inter e Milan sono parti offese, per questo hanno ben poco da temere

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A scorrere la storia di queste relazioni pericolose, si direbbe che il salto di qualità sia stato operato sul finire degli anni Ottanta, col passaggio da una fase “spontaneista” e di aggregazione mutuata nel decennio precedente dai gruppi politici extraparlamentari o estremisti (riscontrabile anche nella scelta di nomi come “brigate”, “collettivo”, “commando”, “nucleo”, etc) a forme di organizzazione quasi imprenditoriali, con un’impostazione più ispirata alla criminalità organizzata.

Da questo punto di vista, nel nostro paese fa testo ciò che accade periodicamente nelle piazze più grandi del tifo: Milano, Roma, Napoli e Torino. È impossibile condensare in poche righe tutti i casi che hanno coinvolto dirigenti e calciatori vittime di minacce da parte degli ultrà per questioni che poco avevano a che fare con l’andamento della squadra sul campo. Partendo dalla Capitale (sponda giallorossa) le prime inchieste di un certo peso risalgono alla metà degli anni Novanta, quando fu acclarato che alcuni capi-ultrà della Sud avevano convenuto di tenere sotto scacco il presidente Franco Sensi, quando quest’ultimo rilevò la società da Giuseppe Ciarrapico, abolendo il trattamento di favore fino a quel momento ai leader della curva.

Ciarrapico, per guadagnarsi rapidamente il favore della Sud e tenere sotto controllo eventuali contestazioni, aveva anche istituito una “Consulta giallorossa” con diritto di tribuna per gli ultrà, che potevano contare su una dotazione cospicua di biglietti e di merchandising sulla quale lucrare. Per ricattare Sensi, fu strumentalizzato anche un personaggio popolare sulla scena romana, Mario Appignani, noto come “Cavallo pazzo”, che operò una serie di invasioni di campo favorite dagli ultrà e pagate salatamente dalla società in termini di multe. Furono anche organizzati degli scontri con altre tifoserie, sempre per danneggiare economicamente Sensi e costringerlo a ripristinare i benefit.

Quasi su un binario parallelo le vicende della sponda laziale, dopo la fine della presidenza di Sergio Cragnotti, nel corso della quale ai leader della Nord erano stati accordati benefici – sempre in termini di biglietti e gestione del merchandising – che l’attuale presidente Claudio Lotito non volle rinnovare. La reazione degli ultrà biancocelesti fu particolarmente dura, e non escluse minacce personali al presidente e alla sua famiglia. Lotito è tutt’ora sotto scorta.

Da non dimenticare che il derby di Roma fu teatro di una delle dimostrazioni di forza più brutali della storia degli ultrà, il 21 marzo del 2004, quando costrinsero arbitro a calciatori a sospendere la partita, veicolando la notizia falsa della morte di un bambino per opera delle forze dell’ordine.

Come detto, la leva preferita dai tifosi violenti per piegare i dirigenti alla propria volontà è il procurare sanzioni di vario genere alla società, che possono arrivare dal lancio di oggetti in campo, da striscioni offensivi o cori razzisti, fino ad arrivare a gravi incidenti dentro e fuori lo stadio. A Torino, cinque anni fa, sono stati arrestati ben 12 capi-ultrà bianconeri, in seguito ad un’inchiesta denominata “last banner”, grazie alla quale i pm ricostruirono una trama di ricatti operati con cori e striscioni razzisti, oltre che con uno sciopero del tifo imposto a suon di botte ai tifosi “normali”, che peraltro in nessun caso poteva essere giustificato dalle perfomance della squadra, all’epoca dominatrice incontrastata del campionato. Le minacce, ovviamente, erano tese a ripristinare i vantaggi soppressi in seguito alla precedente inchiesta “Alto Piemonte”, che aveva rivelato l’attività d bagarinaggio monopolizzata dai gruppi della curva juventina.

Anche a Napoli gli episodi e le inchieste sui ricatti ultrà sono periodici, e da questo punto di vista l’evento clamorosamente rivelatore di questa realtà fu la trattativa tra la polizia e il capo ultrà Gennaro De Tommaso (detto “Genny ’a carogna”) per far svolgere regolarmente la finale di coppa Italia del 2014 tra Napoli e Fiorentina, dopo l’uccisione del tifoso azzurro Ciro Esposito ad opera dell’ultrà romanista Daniele De Santis. Anche nel capoluogo campano i rapporti tra capi-ultrà e società sono divenuti critici quando il presidente Aurelio De Laurentiis ha tagliato le concessioni sulla vendita dei tagliandi.