Sembra che i difensori di Benjamin Netanyahu abbiano trovato una possibile via d’uscita per il loro cliente. In un'intervista radiofonica all’emittente Kan, il portavoce della Corte internazionale dell’Aja Fadi El Abdallah spiega infatti che i mandati di arresto per il premier israeliano e il suo ex ministro della Difesa Yoav Gallant potrebbero essere revocati. La condizione necessaria è che lo Stato ebraico deve mettere in piedi «un’indagine approfondita e una commissione investigativa» per verificare le accuse di crimini di guerra commessi dall’Idf nella Striscia di Gaza, da bombardamenti sulla popolazione civile al blocco degli aiutii umanitari, al taglio di elettricità e forniture d’acqua.

Una posizione, quella di El Abdallah, chein qualche modo anticipa e risponde al ricorso che gli avvocati di Netanyahu stanno per presentare alla Cpi, non tanto sugli elementi fattuali delle accuse ma su la loro stessa base legale. È molto più di un tecnicismo o di un cavillosa via di fuga perché viene chiamato in causa il principio di complementarità uno dei pilastri dello statuto di Roma che stabilisce la priorità delle corti nazionali: in sostanza il tribunale dell’Aja non ha giurisdizione immediata su individui che possono essere perseguiti da un tribunale nazionale come è il caso di Israele che ha una magistratura indipendente dal potere esecutivo e quindi del tutto libera di indagare e di imputare un cittadino, anche se si tratta di un primo ministro in carica.

Tuttavia le eventuali inchieste interne allo Stato ebraico dovranno valutare gli stessi capi d’imputazione contestati dalla Cpi, ovvero crimini di guerra e contro l’umanità. Bisogna stabilire se le stragi di civili e la crisi umanitaria dii Gaza siano state provocate in modo intenzionale dal governo di Tel Aviv.

Non rientrano nel calderone le accuse di genocidio mosse a Israele dalla Corte internazionale di giustizia, sempre con sede all’Aja ma distinta dalla Cpi (la prima, diretta emanazione dell’Onu, indaga su crimini di Stato, la seconda sui singoli individui).

Che la morsa attorno al primo ministro israeliano si stia allentando lo testimoniano anche le recenti dichiarazioni di alcuni leader occidentali. Utilizzando ulterori argomentazioni mercoledì scorso il ministero degli Esteri francese Jean-Noel Barrot aveva sostenuto che per «Netanyahu e gli altri ministri in questione» vale l’immunità che si applica agli Stati che non sono parte della Corte penale internazionale e questo deve «essere preso in considerazione qualora la corte chiedesse a Parigi di arrestarli e consegnarli». Interpellato in materia Barrot si è rifiutato di rispondere chiaramente all’ipotesi di un arresto del premier israeliano in territorio francese, evidenziando un chiaro disagio francese.

Disagio che ieri si è sostanziato in un comunicato congiunto dei ministri degli Esteri di di Germania, Francia e Regno Unito in cui si afferma che «non c’è alcuna giustificazione per cui la Corte penale internazionale debba adottare misure contro i leader israeliani».

Molto meno conciliante l’Alto rappresentante dell’Unione europea per la Politica estera, Josep Borrell che ha lanciato un appello ai membri dell’Ue per difendere la Cpi da chi «vuole minarla», inviando una freccia avvelenata a Netanyahu e alla sua coalizione: «La Corte agisce su base giuridica e non per motivazioni politiche. L’accusa di antisemitismo è ancora una volta un’accusa sbagliata e fuori luogo. Basta nascondersi dietro l’antisemitismo perché non ha nulla a che fare con i mandati di arresto».