Per Pakhshan Azizi è questione di giorni, ore, questione di vita o di morte. Aspetta il boia nel famigerato carcere di Evin, a Teheran, dove è detenuta come prigioniera politica: lo scorso 8 gennaio, nelle stesse ore in cui Cecilia Sala veniva liberata e rientrava a Roma, la Corte Suprema della Repubblica islamica ha confermato la sua condanna a morte per impiccagione. Il tribunale rivoluzionario di Teheran, che ha emesso il suo verdetto nel luglio del 2024, la accusa di “ribellione attraverso l’appartenenza a gruppi di opposizione”.

Un’accusa costruita ad arte, nella fabbrica giudiziaria del regime iraniano, perché Pakhshan Azizi, attivista curda di 40 anni, è “colpevole” due volte: di essere donna e di appartenere a una delle due minoranze etniche maggiormente oppresse, i curdi e i beluci. Arrestata per la prima volta nel 2009, quindi rilasciata e imprigionata di nuovo nell’agosto 2023 insieme al padre e alla sorella, Azizi ha trascorso quattro mesi in isolamento nella sezione 209 del carcere di Evin, dove si trovano i dissidenti politici, per poi essere trasferita nel reparto femminile insieme alle altre attiviste finite nel mirino del regime, come il premio Nobel per la pace Narges Mohammadi.

Con loro ha condiviso lo sciopero della fame avviato in carcere contro il boom di esecuzioni ordinate dalle autorità iraniane per soffocare il movimento “Donna, vita, libertà”. Dal quel momento, nel settembre 2024, la sua posizione si è aggravata e le è stato negato anche ogni contatto con la famiglia. Ma Azizi “sconta” soprattutto la sua attività come operatrice umanitaria nei campi profughi nel Nord della Siria a supporto delle vittime dell’Isis. Un’attività del tutto pacifica, ha spiegato il suo legale Amir Raeisiian, per il quale il processo si è svolto in spregio ad ogni regola del diritto, in mancanza di indagini e prove.

«Accusare Pakhshan Azizi di azioni criminali come l’appartenenza a un gruppo di insorti non solo è privo di qualsiasi base legale o probatoria - ha argomentato il difensore - ma anche se avesse fatto parte di tale gruppo, è stata arrestata disarmata, non ha mai usato armi e anche quando si trovava nella regione curda della Siria, era a rischio per gli attacchi dell’Isis. Non ha avuto conflitti con le forze iraniane in Siria, Iraq o Iran, il che dimostra che questa sentenza contraddice le politiche giudiziarie che si afferma siano state seguite».

Anche per l’Ong Iran Human Rights, la sentenza nei suoi confronti è del tutto arbitraria, e rientra nella strategia messa in atto dalla Repubblica Islamica per reprimere le rivolte esplose nel paese a seguito della morte di Mahsa Amini per mano della polizia morale. Solo nel 2024, secondo i dati riportati dall’Ong, sono state giustiziate almeno 31 donne, il numero più alto degli ultimi 15 anni. Nel corso dei quali sono state consegnate nelle mani del boia almeno 241 donne.