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Prima Aldo Moro, poi Bettino Craxi e ora lui, Matteo Renzi, che traccia una linea rossa immaginaria tra lui e gli altri due ex premier: a unirli, il rispetto per il principio di «separazione dei poteri». Lo fece Moro nel 1977, anno dello scandalo Lockheed e delle dimissioni di Giovanni Leone, quando disse «non ci faremo processare dalle piazza». Lo fece Craxi nel 1992, nel famoso discorso sul finanziamento ai partiti, in cui tuonò: «Ho imparato ad avere orrore del vuoto politico».
Comincia così il Renzi- show sull’inchiesta Open dal palcoscenico di Palazzo Madama e- come sempre nel caso del senatore semplice di Rignano - non è una difesa ma un attacco: ai pm che si sentono sovraordinati alla politica, ai togati del Csm che censura il libero pensiero di un senatore ( il suo) e ai politici che rimangono silenti senza capire oggi è successo a Open ma domani «può accadere a ciascuno di voi».
Dopo la premessa del «rispetto non formale ma sostanziale alla magistratura», il fulcro del suo discorso, infatti, è uno: «E se al Pm affidiamo non già la titolarità dell’azione penale ma dell’azione politica, questa aula fa un passo indietro per pavidità e paura e lascia alla magistratura la scelta di cosa è politica e cosa non lo è».
Renzi, senza mai citare il nome della fondazione Open a lui riferita e finita al centro di un’inchiesta della procura di Firenze per traffico di influenze illecite e finanziamento illecito ai partiti, sottolinea che «non si parla di dazioni di denaro nascoste o illecite, ma di contributi regolarmente registrati, bonificati, trasparenti. Questa fondazione aveva il bilancio totalmente pubblico. Questi contributi regolari sono stati improvvisamente trasformati in contributi potenzialmente irregolari, perchè si è deciso che quella fondazione non era una fondazione e ma un partito. La magistratura ha deciso autonomamente non cosa è finanziamento illecito, ma ha preteso di decidere cosa è partito e cosa no». In che modo?
«È accaduta una cosa semplice: contributi regolarmente dati alla fondazione sono stati improvvisamente trasformati in contributi irregolari». Questa la prima accusa mossa alla magistratura, che ha ordinato a «300 finanzieri di andare nelle case di persone che hanno finanziato la politica o, perlomeno, che hanno finanziato una fondazione, e si arriva al presupposto che il processo sarà per capire se la Leopolda era un’iniziativa di partito o meglio un’articolazione di partito o, come dicevano gli organizzatori, un’iniziativa slegata alla singola vita di partito, se il processo penale si fa su che cosa sia la Leopolda, noi abbiamo evidentemente un dato di fatto: quei 300 finanzieri prendono dei telefonini, alcuni dei quali ancora non sono stati restituiti ancora non restituiti - prendono dei dati e vanno a strascico, come si dice per quelle indagini nelle quali si parte da un reato cosiddetto presupposto, per poi andare a verificare se c’è dell’altro».
L’affondo finale riguarda l’esercizio dell’azione penale: «C’è un reato in questa vicenda che nessuno vuole vedere, ex art 326, la violazione del segreto d’ufficio e riguarda vicende personali. Se nelle stesse ore della perquisizione c’è la pubblicazione di dati sensibili che solo la banca d’Italia, la Procura e la Guardia di finanza hanno c’è un corto circuito. La violazione del segreto d’ufficio non può essere derubricata a un reato minore, perchè si dà per scontato che la privacy per un politico non esiste».
La seconda accusa, invece, punta direttamente all’organo di autogoverno delle toghe: «Chi si permette di dire che questo atteggiamento affronta la vita politica delle persone viene censurato dai togati del Csm», cui Renzi si rivolge direttamente: «Dico tuttavia ai membri togati del Consiglio superiore della magistratura, che censurano un senatore - quale esso sia - per l’espressione delle sue idee politiche, che non mi risulta che sia stato abrogato dall’articolo 68 della Costituzione, che, al comma primo, recita testualmente: I membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse».
Il terzo attacco, infine, riguarda la stessa politica: «Non si può trasformare in processo ciò che è elemento di opportunità politica perché, nel processo alle intenzioni, anche se vi credete assolti, siete comunque coinvolti», e ancora «Chi dice poi che la privacy vale soltanto per qualcuno e non per altri, abbia il coraggio di dire che siamo alla barbarie», dice riferendosi alla pubblicazione delle foto e delle notizie relative alla sua abitazione e ai suoi conti correnti.
La conclusione del discorso di Renzi è un guanto di sfida a tutte le parti chiamate in causa: «Chi volesse contestarci o, peggio ancora, eliminarci per via giudiziaria, sappia che dalla nostra parte abbiamo il coraggio e la voglia di dire che il diritto e la giustizia sono cosa diversa dal peloso giustizialismo e dalla connessione con certi strumenti di comunicazione e di stampa». Si è chiuso così l’intervento forse più duro mai pronuciato in Aula dal leader di Italia Viva, in linea con la campagna comunicativa “colpo su colpo” lanciata dai suoi social. E la tensione tra potere legislativo e potere giudiziario minaccia di tornare alle stelle.