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Un ex primo ministro libanese, il quarto uomo più ricco del mondo, salta in aria insieme ad altre 21 persone. Dopo 15 anni, a conclusione di un’istruttoria del Tribunale Speciale internazionale durata undici anni e una serie di colpi di scena - spie , doppiogiochisti, testimoni corrotti, travestimenti, furti di documenti, omicidi - con un costo stimato superiore al miliardo di dollari, arriva la condanna per una sola persona. Un pesce piccolo, anzi: piccolissimo.
Cosa è successo?
Cerchiamo di ripercorrere le tappe di una vicenda singolare, eppure molto esemplificativa.
Il 14 febbraio 2005 viene ucciso Rafiq Hariri. L’attentato non è mai stato rivendicato - rectius: è stato rivendicato da un gruppo terroristico inesistente, cioè il sedicente “Vittoria e Jihad della grande Siria”. Tutti i possibili autori si affrettano a dichiararsi estranei al fatto, indicando la responsabilità altrui. Si sospetta l’azione di Stati stranieri. Ogni gruppo religioso accusa l’altro, in un quadro di conflitto potenzialmente esplosivo e in cui l’interferenza delle potenze regionali - Siria ed Israele - è all’ordine del giorno. Va ricordato che il Libano è una repubblica fondata sul confessionalismo, vale a dire che la religione diventa il principio ordinatore della rappresentanza politica e il cardine del sistema giuridico. In pratica, tutte le cariche politiche sono spartite per quote a seconda delle religioni, con tre costanti: il Presidente della Repubblica è cristiano, il Primo Ministro è sunnita, il Presidente del Parlamento è sciita. Al momento in cui avviene l’omicidio, cioè nel 2005, il Libano è ancora invaso al sud dall’ esercito siriano - l’unico a non essersi ritirato dopo la fine della guerra civile - che staziona lì sostenendo Hezbollah da quindici anni.
La morte di Hariri porta due conseguenza immediate. La prima è lo scoppio della “rivoluzione del cedro”: la piazza ottiene che la Siria - potenziale mandante dell’attentato - ritiri il proprio esercito. La seconda è l’intervento internazionale. Il Libano infatti non trova pace: nel 2006 scoppia la guerra con Israele, che bombarda ed invade il paese per rappresaglia contro gli attentati di Hezbollah. Il conflitto termina per l’interposizione delle Nazioni Unite e l’invio della forza di interposizione UNIFIL, ancora presente nel sud del paese. Nel quadro generale, dunque, non solo è teso il fronte dei rapporti con la Siria, ma è potenzialmente esplosiva la divisione interna fra libanesi e libanesi sciiti simpatizzanti di Hezbollah, mentre i rapporti con Israele sono apertamente conflittuali. In questo contesto l’ ONU raccomanda, risolve e crea una commissione internazionale d’inchiesta per fare chiarezza sulla morte di Hariri, o meglio, per aiutare il Libano a fare chiarezza sulla morte di Hariri. Si tratta dell’ UNIIIC guidata dal tedesco Detlev Mehlis, il quale non ha dubbi: l’attentato è di matrice siriana e ne sono colpevoli anche i servizi segreti deviati. Viene disposto l’arresto di quattro generali, accusati di concorso in strage.
Ma gli omicidi politici non si fermano: è lo stesso Libano, quindi, a chiedere all’Onu di intervenire con un Tribunale Speciale, che entra in funzione nel 2009. Gli undici anni di istruttoria sono degni della sceneggiatura di un film. Primo colpo di scena: i super- testimoni che hanno inchiodato i generali, si scoprono essere agenti corrotti dei servizi segreti. Le testimonianze sono invalidate e i militari - dopo quattro anni - sono scarcerati. Secondo colpo di scena: uno dei generali liberati deposita prove contro Israele. Terzo colpo di scena: il giovane ufficiale Wissam Eid produce dei tracciati telefonici che ritiene relativi all’attentato. Mentre sta andando a deporre, salta in aria. Quarto colpo di scena: mentre sui tabulati di Eid si cerca di ricostruire l’identità dei possibili attentatori, un gruppo di uomini travestiti da donne si introduce in un ospedale e ruba delle schede mediche contenenti dati sensibili e numeri di telefono. Quinto colpo di scena: il procuratore generale Daniel Bellamore arriva ai nomi di cinque sospetti Hezbollah ma non riesce ad arrestarli. Il processo comincia in contumacia. Sesto colpo di scena: un editore vicino a Hezbollah e una giornalista della rete televisiva Al Jadid sono accusati di intralcio alla giustizia e rivelazione di segreto. L’accusa chiede 7 anni di reclusione e 100.000 euro di multa a testa. Saranno assolti dopo due anni. Settimo colpo di scena: il capo di Hezbollah, Hassan Nasrallah, dichiara di non riconoscere la legittimità del TSL e che non collaborerà in caso di condanna, ritenendo che l’omicidio sia un regolamento di conti fra sunniti per questioni di potere e soldi.
Il 18 agosto 2020 arriva la sentenza: il TSL dichiara colpevole solo il 56 enne Salim Jamil Ayyash, assolvendo gli altri imputati, peraltro irreperibili ( uno, Mustafa Baddredine, sarebbe morto nel 2016), e non riconosce alcuna responsabilità né della Siria né della dirigenza di Hezbollah. La domanda resta aperta: il gioco ha valso la candela? Si dice che un buon compromesso sia meglio di una cattiva vittoria. Nell’immediato, se l’obiettivo del TSL era diventato evitare disordini interni in una nazione già ridotta allo stremo, si può credere che il risultato sia raggiunto. Se l’obiettivo era assicurare giustizia, invece, occorrerà un’analisi più attenta di come è stata svolta l’istruttoria. L’ intervento internazionale è ancora una speranza per i paesi incapaci di assicurare una giustizia interna, ovviamente a condizione che si arrivi a risultati convincenti.