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Lucano
Il tribunale del Riesame ha rigettato il ricorso della difesa di Domenico Lucano, sindaco sospeso di Riace, contro il divieto di dimora, che dal 16 ottobre scorso lo tiene lontano da casa. Un no che arriva dopo l'annullamento con rinvio disposto a febbraio scorso dalla Cassazione, che aveva fortemente criticato le motivazioni con le quali il primo Tribunale della Libertà aveva costretto il primo cittadino fuori dai confini della città dei bronzi. Per conoscere le motivazioni con le quali i giudici hanno respinto la richiesta toccherà attendere 30 giorni. Quel che è certo, al momento, è che Lucano dovrà sperare ancora una volta nella Cassazione, che pochi giorni prima del suo rinvio a giudizio aveva motivato duramente la decisione di annullare con rinvio la prima decisione del Riesame, cassando le «non previste valutazioni di ordine morale» con le quali era stato valutato il suo operato. I giudici della Suprema Corte avevano parlato di esigenze cautelari basate su circostanze «irrilevanti», ritenute anche nella prima ordinanza cautelare «prive del necessario fondamento giustificativo». Così come il richiamo a presunti matrimoni di comodo, secondo gli Ermellini, poggia su un quadro «sfornito di elementi di riscontro», sebbene sia valutato positivamente il ragionamento logico alla base della contestazione del reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Le parole della Cassazione erano, di fatto, una riabilitazione di "Mimmo il curdo", con un ulteriore colpo inferto ad un impianto accusatorio giudicato debole già dal giudice per le indagini preliminari. Evidenziando, soprattutto, la carenza di fatti concreti a sostegno dell’accusa di frode e del condizionamento nella scelta del soggetto a cui affidare la raccolta dei rifiuti, effettuata con atti collegiali, e non - come ipotizzato dalla Procura di Locri - come atto d’imperio del sindaco sospeso di Riace. Di indizi che supportino il dubbio di comportamenti illegali, insomma, secondo i giudici non vi è traccia. Anzi, quegli affidamenti diretti, sotto soglia, erano possibili e tutti certificati da pareri di regolarità tecnica e delibere approvate anche in sua assenza. Per quanto riguarda l'accusa relativa al condizionamento dell'appalto della raccolta differenziata, secondo la Cassazione, «il requisito del mezzo fraudolento e lo stesso fine di condizionamento del procedimento amministrativo finalizzato alla scelta del soggetto affidatario del servizio di raccolta e trasporto dei rifiuti urbani - si legge - non emergono con la necessaria chiarezza e coerenza argomentativa». E questo sia in ragione del carattere collegiale delle delibere e di tutti gli atti amministrativi adottati sulla base di pareri di regolarità tecnica e contabile «sempre sottoscritti anche dal segretario comunale e dagli altri funzionari tecnici coinvolti nelle relative sequenze procedimentali», sia in ragione «della evidente notorietà dell'iniziativa (pubblicizzata anche attraverso l'istituzione di un albo comunale) e della oggettiva connotazione di peculiarità - espressamente riconosciuta anche nei provvedimenti amministrativi via via susseguitisi nel tempo - del servizio pubblico loro affidato, e a suo tempo fatto oggetto di una specifica valutazione di fattibilità espressa con la delibera comunale che stabiliva il ricorso alla modalità "dell'asinello porta a porta" per la raccolta dei rifiuti urbani». Per l’accusa, quelle cooperative impegnate nella raccolta avrebbero dovuto essere iscritte all’albo regionale delle cooperative sociali. Ma all’epoca dei fatti, scrivono i giudici, quell’albo non esisteva. E ciò almeno fino alla data del 7 marzo 2016. L’ordinanza del Riesame, che imponeva il divieto di dimora a Riace, non forniva, dunque, «elementi di gravità indiziaria» tali da avvalorare l’accusa. Anzi, non emergono con la necessaria chiarezza «gli atti o i comportamenti che l'indagato avrebbe materialmente posto in essere per realizzare in concreto una serie di condotte che, allo stato, paiono solo assertivamente ipotizzate, e le cui note modali, peraltro, non vengono sotto alcun profilo tratteggiate, rimanendo addirittura contraddette dalla connotazione di collegialità propria di tutti gli atti di affidamento» e dai «pareri di regolarità tecnica e contabile da parte dei rispettivi responsabili del servizio interessato». E non c’è dubbio, secondo la Cassazione, che Lucano volesse aiutare Lemlem Tesfahun a portare suo fratello in Italia, arrivando con lei in Etiopia e collaborando al suo tentativo di sposarlo con documenti falsi per garantirgli un permesso di soggiorno. Gesti compiuti, come affermato nella decisione che riguarda la Tesfahun, «probabilmente per finalità moralmente apprezzabili». Ma il dubbio che si insinua nella validità dell’impianto accusatorio è un altro. Per la Procura, infatti, quello di combinare matrimoni tra cittadini di Riace e donne straniere sarebbe stato un «metodo» per garantire il permesso di soggiorno alle immigrate che chiedevano aiuto al sindaco. Ma per i giudici, «il richiamo a presunti matrimoni di comodo favoriti dall'indagato poggia sulle incerte basi di un quadro di riferimento fattuale non solo sfornito di significativi e precisi elementi di riscontro ma, addirittura, escluso da qualsiasi contestazione formalmente elevata in sede cautelare». Sulle esigenze cautelari, infine, i giudici della Suprema Corte sono chiari: gli scarni passaggi motivazionali dell’ordinanza «non si dedicano ad illustrare, con puntuali argomentazioni, gli elementi ritenuti, oggettivamente e soggettivamente, sintomatici della concretezza e dell'attualità dell'enunciato pericolo di reiterazione di delitti "della stessa specie di quello per cui si procede", ma risultano basati, sotto tale profilo, su affermazioni del tutto apodittiche ed irrilevanti ai fini del richiesto vaglio deliberativo, perché estranee ai contorni propri delle vicende storico fattuali oggetto dei temi d'accusa». Insomma, non è chiaro il motivo per cui, da sei mesi, Lucano non possa continuare a fare il sindaco del suo paese. Le circostanze poste alla base di tale decisioni sarebbero, di fatto, «asintomatiche, solo genericamente individuate ovvero irrilevanti» ai fini di una valutazione circa la concretezza ed attualità del pericolo, in quanto «già ritenute, finanche nella prima ordinanza cautelare, prive del necessario fondamento giustificativo derivante da un positivo esito del preliminare vaglio di gravità indiziaria, o addirittura basate su non previste valutazioni di ordine morale». Parole dure, che però non hanno convinto i giudici del Riesame.