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I difensori di Alfredo Romeo quell’espressione l’avevano usata: “Cavallo di Troia”. E per questo “siamo stati chiamati mafiosi”, denunciano ora in un esposto a Consiglio nazionale forense e Unione Camere penali. La nota diffusa lo scorso 5 gennaio dai legali napoletani Francesco Carotenuto, Alfredo Sorge e Giovanbattista Vignola e definita “inquietante” dal Fatto quotidiano finisce dunque all’attenzione dei massimi organismi dell’avvocatura. Chiamati dai tre professionisti a intervenire sia contro “gli attacchi” di stampa, sia per la “fuga di notizie” sull’inchiesta che vede indagati anche il ministro dello Sport Luca Lotti e il comandante dei carabinieri Tullio Del Sette.
L’assistito in questione, l’imprenditore casertano che gestisce servizi e manutenzione presso “almeno 200 amministrazioni pubbliche” era stato – avevano sostenuto i tre difensori nella nota del 5 gennaio – “usato strumentalmente per indagare sulla Consip e sulle alte cariche dello Stato”. Volevano spiegare che nell’inchiesta sui servizi di pulizia all’ospedale Cardarelli di Napoli, l’uso delle intercettazioni ( fatte anche attraverso i “trojan horse”), era forzato, indebito. A loro giudizio le accuse di concorso esterno in associazione mafiosa che giustificavano le captazioni erano “insussistenti”.
Volevano insomma dire che se i pm della Procura di Napoli non avessero ipotizzato l’accusa di concorso esterno nei confronti di Romeo, non avrebbero intanto potuto intercettare lui, e successivamente neppure gli altri soggetti coinvolti, ministro e comandante compresi. E che, in ultima analisi, il vero “cavallo di Troia” è proprio quel “doppio binario investigativo” che prevede di usare le intercettazioni contro mafiosi e terroristi, ma che, con una semplice esagerazione nell’ipotesi di accusa, consente di fatto alle Procure di intercettare chiunque. Anche “le alte cariche dello Stato”.
Gli avvocati volevano dire questo. Inoppugnabile.
La loro nota è stata additata come un “pizzino”. E loro dunque come la versione avvocatesca di Binu “’ U tratturi” Provenzano.
Nella frenesia con cui nei primi giorni dell’anno il Fatto quotidiano prima e altri media poi hanno dato notizia dell’indagine su Romeo, Lotti e Del Sette, questa pazzesca accusa agli avvocati si era, per così dire, persa nel mucchio. Ora i tre professionisti dell’Ordine di Napoli la denunciano nell’esposto a Cnf e Ucpi, indirizzato anche al Consiglio dell’Ordine e alla Camera penale partenopee. Il documento, inviato due giorni fa, chiede di intervenire su due fronti. Innanzitutto sugli “attacchi” comparsi nei loro confronti sui giornali. A cominciare dall’aggettivo “inquietante” con cui il Fatto quotidiano ha definito la loro “nota tecnica” e da quel titolo sull’imprenditore che, attraverso i suoi tre legali, “lancia messaggi a Renzi e Lotti”. Interpretazione già terribile trasfigurata poi su Dagospia in un titolo peggiore: “I legali dell’imprenditore mandano un pizzino agli amici degli amici”. Sintesi, che “accusa ancora più chiaramente i sottoscritti avvocati di essere ‘ messaggeri della camorra’ usati per intimidire alte cariche dello Stato”. Inoppugnabile anche questo.
L’altro fronte sul quale gli Carotenuto, Sorge e Vignola invocano l’intervento degli organismi forensi è la “fuga di notizie che riguarda questa indagine”. Perché come l’avvocato Sorge ricorda al Dubbio, “la quasi totalità degli atti finiti sui giornali non erano ancora conoscibili per noi difensori, dunque ancora segreti”. Sulla violazione, l’esposto chiede di “sollecitare indagini”. Che magari arriveranno pure. Ma considerate le pene edittali previste, faranno al massimo un po’ di solletico.