PHOTO
Benjamin Netanyahu ha preteso di entrare nella storia. Lo ha fatto dando il via, all’indomani dei massacri del 7 ottobre 2023, a una pesantissima operazione militare sulla Striscia di Gaza che gli è costata pure una richiesta di arresto da parte della Corte penale internazionale con l’accusa infamante di crimini contro l’umanità.
Ha preteso di entrare nella storia chiedendo di parlare davanti al Congresso degli Stati Uniti in sessione congiunta – per la quarta volta, una in più di Winston Churchill – con un obiettivo ben preciso: continuare a ottenere l’appoggio dell’alleato americano nella guerra sulla Striscia di Gaza, senza tralasciare le continue minacce provenienti da Hezbollah e dagli Houti con la regia dell’Iran.
La missione oltreoceano del primo ministro israeliano ha sollevato numerose polemiche. Lo dimostrano le centinaia di dimostranti nei pressi di Capitol Hill che per tutta la giornata di ieri hanno gridato slogan contro il rappresentante dello Stato d’Israele, etichettandolo come un “criminale di guerra”. A Washington Bibi è giunto con alcuni ex ostaggi – tra questi anche Noa Argamani –, liberati grazie all’intervento dell’esercito, e con alcuni familiari di persone rapite dopo le terribili incursioni dei miliziani palestinesi di quasi dieci mesi fa. La presenza negli Stati Uniti di Netanyahu non è stata apprezzata da tutti i parlamentari americani, molti dei quali ( in prevalenza democratici) hanno deciso di disertare l’appuntamento del Congresso. Gli spazi vuoti era visibili. Ad ascoltare Netanyahu anche Elon Musk, seduto dietro a Noa Argamani.
Il primo ministro israeliano è stata accolto da molto applausi e da qualche fischio. Un particolare non è passato inosservato: l’esponente della maggioranza democratica al Senato, Chuck Schumer, non ha dato la mano al premier giunto da Gerusalemme.
In apertura di discorso – durato una cinquantina di minuti e caratterizzato da decine di interruzioni per gli applausi tributati dai presenti -, Netanyahu ha sottolineato che il conflitto tra Israele e Hamas «non è una lotta tra civiltà, ma un confronto tra la civiltà e la barbarie, un confronto tra chi glorifica la morte e chi santifica la vita». Il nemico individuato dal primo ministro d’Israele è «l’asse del terrore iraniano», che non è solo una minaccia per Israele, ma anche per gli Stati Uniti e il mondo arabo moderato. Ecco perché, a suo dire, Israele e Usa devono continuare a stare insieme per vincere. Il richiamo alla vittoria non è stato casuale, perché «quando gli Stati Uniti e Israele sono uniti vincono e noi vinceremo». Un tuffo nella storia con queste parole pronunciate dallo stesso podio nel dicembre 1941 da Franklin Delano Roosevelt, dopo l’attacco giapponese a Pearl Harbor.
Nel ricordare quanto accaduto il 7 ottobre scorso, Bibi Netanyahu ha affermato che il sacrificio delle vittime israeliane non sarà mai dimenticato, come non potrà mai essere dimenticato quanto fatto dall’esercito per difendere Israele e riportare a casa gli ostaggi (135 di loro hanno potuto riabbracciare le loro famiglie). Nel Congresso erano presenti alcuni ufficiali israeliani, definiti “eroi”. Tra questi anche un luogotenente che ha perso la mano destra e un occhio nei combattimenti.
Il presidente uscente degli Stati Uniti, Joe Biden, è stato ringraziato per «il suo costante lavoro a sostegno degli ostaggi» ancora trattenuti da Hamas a Gaza. La conoscenza tra Netanyahu e Biden risale a circa 50 anni fa («mezzo secolo di amicizia verso Israele»).
Se nel Congresso, con tono solenne e grintoso Netanyahu ha voluto difendere le scelte fatte dal 7 ottobre in poi, all’esterno migliaia di manifestanti hanno protestato contro il primo ministro israeliano, mostrando cartelli e chiedendo le sue dimissioni. Senza andare per il sottile, Bibi li ha definiti degli “utili idioti”; “dovrebbero vergognarsi” in quanto stanno facendo il gioco dell’Iran che alimenta e sostiene le proteste anti- Israele.
Infine, la richiesta rivolta agli Stati Uniti affinché siano sbloccati nuovi aiuti militari che «potrebbero accelerare notevolmente la fine della guerra a Gaza e aiutare a prevenire una guerra più ampia in Medio Oriente». Un sostegno per ribadire l’alleanza cruciale e sempre leale tra i due Paesi, che in passato ha visto in prima linea pure l’ex presidente statunitense Donald Trump, elogiato da Netanyahu «per aver concluso gli Accordi di Abramo, per aver riconosciuto la sovranità di Israele sulle Alture del Golan e per aver riconosciuto Gerusalemme come capitale». Parole accompagnate da fischi e applausi. Stati Uniti e Israele condividono la stessa storia. «Insieme – ha concluso Benjamin Netanyahu - difenderemo la civiltà e garantiremo un futuro luminoso per i nostri Paesi».