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Il suo nome in lingua xhosa era Rolihlahla, che vuol dire «colui che taglia i rami dall’albero», più confidenzialmente «il piantagrane», quasi una premonizione per l’uomo che per oltre mezzo secolo ha sfidato il regime segregazionista sudafricano con la forza incrollabile delle proprie idee, che hanno resistito ad ogni avversità.
Ispirato, testardo, paziente, Nelson Mandela è il simbolo universale della lotta all’ingiustizia e della disobbedienza civile, l’indomito profeta dei diritti politici e sociali della popolazione nera sotto il cupo mantello dell’apartheid, una biografia, la sua, che coincide con quella della “nazione arcobaleno” e della sua complicata ma luminosa metamorfosi in una democrazia moderna.
«Non sono né un santo né un profeta, nella mia vita ho commesso tanti errori, ho tante insufficienze, sono una persona comune» dirà quando, nel 1993, ottiene il Nobel per la pace assieme a Frederik de Klerk e il pianeta intero si spertica per celebralo e ricoprirlo di allori, più di Gandhi, più di Martin Luther King.
In fondo aveva ragione, “Madiba” ha semplicemente incarnato la resistenza e il riscatto di un intero popolo e in un certo senso è stato anche lui un ostaggio della Storia che, per le sue insondabili traiettorie, lo ha destinato al sacrificio e alla grandezza.
Rolihlahla Mandela nasce a Mvezo, un villaggio in provincia di Cape Town il 18 luglio 1918; è il primo membro della sua famiglia a ricevere un istruzione e sarà l’insegnante della scuola missionaria metodista britannica a chiamarlo “Nelson”: «Era un’usanza assegnare nomi inglesi ai ragazzini neri, non so perché mi abbia chiamato in quel modo». Negli anni dell’infanzia e dell’adolescenza abbraccia il cristianesimo, una fede che non lo abbandonerà mai e lo guiderà nella lotta alla segregazione, neanche quando sposa le idee comuniste più radicali, più uno slancio spirituale che l’adesione alla chiesa organizzata o a un programma sociale definito: «La religione deve rimanere un fatto privato, un rapporto tra l’individuo e Dio e mai entrare in conflitto con le credenze delle altre persone».
Da giovane ama molto lo sport e l’attività fisica, la corsa e soprattutto la boxe anche se come ammise lui stesso non aveva il livello per combattere con i migliori: «Non ero abbastanza veloce per compensare la scarsa potenza e abbastanza potente per compensare la scarsa velocità». Però si allena intensamente, tutti i giorni: «Invece di battermi con i razzisti usavo il punching-ball per sfogare la mia rabbia e la mia frustrazione».
A 19 anni si iscrive alla facoltà di legge dell’università di Fort Hare, l’unica che accetta studenti neri e incontra Oliver Tambo, amico e compagno di una vita: sono due giovani brillanti e motivati con la passione per la politica. Nel 1943 si iscrivono all’African national congress (Anc) e si occupano della sezione giovanile all’università. Negli anni successivi oltre alla laurea in giurisprudenza Mandela diventa un dirigente ascoltato, capace di risvegliare la coscienza politica dei ragazzi neri e di incitarli a disobbedire alle regole ingiuste e disumane dell’apartheid, a scioperare contro lo sfruttamento dei datori di lavoro bianchi: alla popolazione di colore non è concesso il diritto di voto, non è consentito possedere terre se non all’interno di minuscole riserve indigene (appena il 7% della superficie coltivabile), confinata senza diritti nei ghetti urbani, quartieri poverissimi dove la popolazione di colore vive segregata. Una situazione che peggiora con le elezioni del 1948 che vedono la vittoria del Partito nazionale, guidato da afrikaner (i bianchi non anglo sassoni che nel XVII Secolo colonizzarono il Sudafrica): come prima misura impongono il divieto di matrimoni misti.
Nel 1952 assieme a Tambo apre a Johannesburg il primo studio legale diretto da due avvocati non bianchi, forniscono assistenza a basso costo ai neri che non possono pagare le parcelle: il sistema giudiziario, per quanto iniquo, garantisce ancora in quegli anni una relativa equità a differenza del potere politico. Nel 1955 Mandela partecipa all’elaborazione della Carta della libertà, vera e propria Bibbia della lotta all’apartheid fino al 1991, riconosciuta anche dalle Nazioni Unite: «Il popolo deve governare» recita il primo articolo.
Uno dei principi che guidano l’azione del giovane Mandela è la non-violenza, una pratica che mutua dall’indiano Mohandas Gandhi, anche lui rivoluzionario, anche lui avvocato. È dopo il terribile massacro di Sharpeville, un sobborgo poverissimo a cinquanta chilometri di Johannesburg, che la fede nella non violenza comincia a vacillare. Il 21 marzo 1960 a migliaia scendono in piazza per contestare il famigerato pass, il passaporto interno che la popolazione di colore deve portare con sé per poter accedere alle zone controllate dai bianchi, uno dei tanti marchi dell’infamia razziale che verrà abolito nel 1986.
I manifestanti si riuniscono davanti al commissariato locale dove bruciano simbolicamente i propri pass, gridano slogan duri contro il regime ma il sit-in è pacifico, ci sono donne, anziani e bambini. La polizia «ha perso la testa» diranno le autorità per giustificare la strage: decine di raffiche sparate ad altezza d’uomo per oltre due minuti lasciano senza vita 69 persone con quasi duecento feriti, decenni più tardi un’inchiesta stabilirà che quel massacro fu un atto deliberato, gli agenti spararono per lo più alla schiena dei manifestanti in fuga e non vennero mai accerchiati dalla folla. I fatti di Sharpeville scatenano la rabbia dei neri delle township che assaltano gli edifici pubblici.
La repressione del regime è brutale, migliaia gli arresti arbitrari, mentre l’Anc e il Partito comunista sudafricano vengono dichiarati fuori legge. Mandela contribuisce a fondare il Umkhonto we Sizwe, gruppo clandestino che tra le forme di lotta prevede la resistenza armata, sostenuto anche dall’Urss e dai Paesi del patto di Varsavia. Tra gli uomini più ricercati dal regime lascia il Sudafrica, in Marocco, algeria e Tunisia incontra militanti e guerriglieri anti-colonialisti; legge i libri di von Clausewitz, Mao Zedong, Che Guevara e si occupa della formazione di milizie paramilitari, ma senza bellicoso fanatismo: «Lo scopo della lotta non è premere su un grilletto, ma creare una società giusta». Sono gli anni del grande isolamento, in cui Usa e Gran Bretagna considerano l’Anc un’organizzazione terrorista e, grazie a una soffiata della Cia, Mandela viene arrestato nel 1962, il pubblico ministero chiede la pena di morte, alla fine è condannato all’ergastolo e ai lavori forzati per alto tradimento e sedizione nel processo farsa di Rivonia, definito «illegale» dallo stesso Consiglio di sicurezza dell’Onu.
Nel ’64 è trasferito nella prigione di Robben Island con il numero di matricola 46664 come detenuto di classe D (il rango più basso), il regime spera così di seppellirlo nell’oblio della cattività, ma paradossalmente, il nome di Mandela prigioniero politico comincia a circolare ai quattro angoli del globo. Robben island è un istituto di pena concepito per fiaccare e distruggere la volontà dei detenuti, diventerà un laboratorio di coscienza politica e disobbedienza; Mandela organizza scioperi della fame, si rifiuta di chiamare «capo» le guardie carcerarie come impone il regolamento, fa costante attività fisica per rimanere in forma e non crollare di fatica mentre durante il giorno è costretto a spaccare pietre.
La sua prigionia è così scomoda per i segregazionisti che il regime organizza un complotto per farlo evadere e poterlo uccidere durante la fuga. Nel 1976 il governo gli offre addirittura la libertà in cambio della rinuncia a qualsiasi attività politica ottenendo un secco rifiuto. Stessa musica nel 1985 con il presidente Willelm Botha, libertà condizionata e esilio nel suo villaggio natale. Altro rifiuto: se l’Anc rimane illegale nessuna possibilità di accordo. Ormai il Sudafrica è uno stato canaglia e la sua economia affonda sotto il peso delle sanzioni internazionali: il mondo intero chiede la liberazione di Nelson Mandela senza condizioni. Nel luglio 1988 a Wembley viene organizzato un concerto per i suoi settant’anni che viene seguito da settecento milioni di telespettatori.
Nel frattempo Mandela è tornato a predicare la non violenza e soprattutto la “riconciliazione nazionale”, un’idea che ha sviluppato dialogando con l'arcivescovo di Cape Town, Desmond Tutu. Sacerdote, diplomatico e attivista politico, Tutu ha sostenuto in tal senso una vera e propria “teologia della riconciliazione”. È stato con lui che Nelson Mandela ha istituito nel 1995 la Commissione per la verità e la riconciliazione. Essa offriva l'amnistia ai responsabili degli abusi durante l'apartheid, a condizione che rivelassero la verità sui loro misfatti e che il crimine commesso fosse motivato politicamente.
La svolta avviene nel 1989 quando il presidente Botha è colpito da un ictus cerebrale ed è sostituito dal ministro dell’educazione Frederik de Klerk «il più onesto e coraggioso leader bianco che abbia mai conosciuto» dirà Mandela. Il nuovo presidente rompe tutti i ponti con il passato segregazionista del suo partito, annuncia il ritorno alla legalità per l’Anc e mette fine alla detenzione di centinaia di prigionieri politici tra cui Nelson Mandela che il 2 febbraio 1990 torna un uomo libero.
Nel 1994, a seguito delle prime elezioni multirazziali della storia sudafricana, l’Anc trionfa con il 62,6% dei suffragi e Mandela è il primo capo di Stato nero del Paese. Il suo discorso di insediamento è un pezzo di storia del 900, una pietra miliare della lotta per la giustizia che rinuncia al rancore e alla vendetta che sancisce la vera nascita della “nazione arcobaleno”.