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Il più “illiberale” dei premier europei ha un passato da dissidente liberale del governo filo- sovietico ungherese. Un paradosso che accompagna le biografie di molti uomini politici della sua generazione che hanno fatto fortuna nel passaggio tra il comunismo e il cosiddetto “mondo libero”. Intrecciando con scaltrezza le antiche radici autoritarie a un trasformismo spregiudicato e neofita.
«A vederlo sembra un politico populista e nazionalista dalla nascita ma non è così, non ha reali convinzioni ideologiche, è un uomo abile, opportunista con un gusto smodato per il potere», scriveva nel 2019 la giornalista Amélie Poinssot, autrice di una sua biografia al vetriolo.
La discesa in campo di Viktor Orban risale al 1989, pochi mesi prima che venisse smantellata la Cortina di ferro; l’allora 26enne studente universitario interviene in una cerimonia che commemora Imre Nagy e i martiri della rivoluzione del ’ 56. Pronuncia parole di fuoco contro l’Urss, esigendo la partenza immediata dal Paese dell’Armata rossa e invocando riforme democratiche. Applausi e ovazioni salutano il discorso di quel ragazzo che, da subito dimostra, di avere il piglio del leader e del capopopolo. Il suo sodale all’epoca era Gábor Fodor, compagno di stanza all’Università appena un anno più grande di lui con cui fonderà Fidesz ( e di cui si libererà allegramente qualche anno dopo), il partito che ancora oggi dirige e controlla manu militari.
L’occasione si presenta alle elezioni del 1990 quando ottiene un seggio in Parlamento, ma Fidesz non va oltre un modesto 8%: è il quinto partito in un voto vinto dai democristiani del Forum democratico che Orban accusa di essere troppo conservatori e tradizionalisti. All’epoca infatti era un “convinto” europeista e nei comizi agitva la bandierina blu a stelle gialle e invocava una rapida integrazione di Budapest nell’Ue.
Su posizioni apertamente filo- occidentali nel ’ 92 diventa addirittura vicepresidente dell’Internazionale liberale. Ma la retorica pseudo- democratica non rende, la transizione al capitalismo ha creato nuove povertà, nuovi risentimenti, nuove opportunità elettorali.
Così il liberalismo della prima ora lascia il posto senza batter ciglio a un arsenale decisamente più efficace e al passo con i tempi. Basta con il progressismo farlocco che si rivolge di fatto a una minoranza elitaria; bisogna parlare ai blocchi sociali concreti, ai poteri reali, il nazionalismo è il contenitore ideologico, il populismo lo stile politico, il lobbismo la tecnica per consolidare la propria influenza.
La parola d’ordine diventa: preservare l’identità nazionale magiara, un’eccezione culturale e linguistica circondata e minacciata dagli “stranieri” slavi e germanici, ma soprattutto immigrati di religione musulmana che vogliono recidere le nostre antiche radici spirituali.
L’operazione di recupero comprende anche e soprattutto l’identità religiosa, il cristianesimo che scorre nelle vene della nazione, la beatificazione della famiglia tradizionale, le critiche alla “dissolutezza morale” dell’Occidente con le sue “devianze”, il grande potere accordato alla Chiesa ungherese e alle scuole cattoliche, l’introduzione della teoria del “disegno intelligente” da contrapporre all’evoluzionismo darwiniano nei programmi ministeriali.
Eppoi la scelta dei “nemici”, dei bersagli ideali: le ong dei diritti civili equiparate ad agenti ostili di potenze straniere, gli omosessuali equiparati a pedofili, i burocrati di Bruxelles, equiparati a vampiri sul libro paga delle banche e naturalmente i migranti, vero e proprio spauracchio che bussa minaccioso alle porte del Paese mettendone a repentaglio le radici spirituali.
Una narrazione classica, che nell’ultimo decennio ha portato alla ribalti tanti leader nel mondo. Ma la manifesta xenofobia del suo governo non è figlia del razzismo fanatico, quanto del cinismo pragmatico, della rendita politica che da oltre vent’anni permette a Orban di tenere in mano le redini del suo Paese.
Intercettando sentimenti e paure profonde, o alimentandole ad arte quando serve.
Ma non come farebbe un Salvini o una Le Pen qualsiasi. Prima di venire espulsa, Fidesz era membro del Partito popolare europeo e non ha mai manifestato l’intenzione di avere l’estrema destra sovranista come compagna di banco. Troppo ingombranti, troppo connotati, troppo occidentali, Orban, che ha dimostrato di saper giocare su più tavoli, continua con fierezza per la sua strada che è quella dell’eccezione magiara, aizzando il suo popolo contro avversari immaginari, e tessendo una ragnatela autoritaria che ormai ha raggiunto ogni piccolo meandro della società ungherese.