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«Sono profondamente triste per l’arresto di Cecilia Sala. Il suo grande amore per l’Iran e per il suo popolo è evidente nei suoi reportage. In un momento in cui molti cercano di demonizzare l’Iran e i suoi abitanti, i suoi articoli riflettono l’umanità del popolo iraniano e la ricchezza della nostra cultura. Mi unisco ai miei compatrioti nel chiedere l’immediato rilascio della signora Sala dalla prigione di Evin, affinché siano tutelati i diritti di tutti i giornalisti, così come quelli dei cittadini stranieri, in Iran. In un periodo in cui Sua Santità Papa Francesco celebra il Natale invitando persone di tutte le fedi ad abbracciare l’amore e la vita, la liberazione della signora Sala rappresenterebbe un gesto di speranza e gioia, spezzando i cicli di ostilità e odio che dividono le civiltà». Non ha ancora una volta paura di parlare Nasrin Sotoudeh, l’avvocata iraniana paladina dei diritti umani che dal carcere di Evin, dove si trova la giornalista italiana de Il Foglio, ci è passata più volte. In quel buco nero dei diritti, ora, si trova anche suo marito Reza Khandan, anche lui attivista, “colpevole” di aver fabbricato delle spille contro il velo obbligatorio e contro tortura e repressione. Khandan, nei giorni scorsi, ha iniziato uno sciopero della fame, interrotto per via delle sue gravi condizioni di salute. E alla sua famiglia viene impedito di incontrarlo, un’altra forma di tortura pensata per portare allo stremo i prigionieri politici.
Il caso Sala è l’esempio lampante di ciò che le autorità politiche iraniane pensano dei diritti umani. Che idea si è fatta di questa vicenda?
Prima di tutto, credo che ci siano evidenti comportamenti illegali in questo caso. Sala è entrata in Iran in maniera completamente legale, con passaporto e previa comunicazione, come giornalista, e stava svolgendo i suoi doveri professionali. Nonostante ciò, è stata arrestata senza alcun motivo, solo in seguito alla detenzione di un cittadino iraniano in Italia. Non c’era alcun mandato di arresto nei suoi confronti. Questo tipo di atti illegali e vergognosi accade ormai da anni in Iran. Questi comportamenti compromettono gravemente l’immagine del Paese e fanno infuriare il popolo iraniano, perché a causa di questi atti è l’immagine di tutti noi che viene compromessa.
L’ipotesi è appunto che si stia tentando di fare uno scambio con Mohammad Abedini Najafabani, arrestato tre giorni prima di Sala in Italia. Quanto la ritiene fondata?
Ho sentito più volte dai miei colleghi che, in situazioni simili, le autorità hanno cercato di negoziare con le ambasciate per organizzare scambi con individui accusati di atti terroristici in Europa o altrove. Non posso negare che questo possa essere uno di quei casi.
Lei è stata più volte ad Evin. Quali sono le condizioni di detenzione?
Se i detenuti si trovano nel reparto 209 o nel blocco 2A, l’isolamento è la prima e più crudele forma di tortura. Il contatto con il mondo esterno viene completamente interrotto. I detenuti sono rinchiusi in celle con pareti bianche, spesso di un colore neutro come grigio o crema. Il pavimento è nudo e l’unico equipaggiamento fornito è una coperta militare usata come materasso, un’altra per coprirsi e una più piccola da usare come cuscino. Il cibo viene distribuito tre volte al giorno in contenitori monouso, e le telefonate sono vietate. Tutto dipende dalla discrezione dell’interrogatore, che può decidere se permettere un contatto con la famiglia dopo settimane o mesi.
A cosa sono sottoposti i detenuti?
Una delle pratiche peggiori è l’obbligo di indossare una benda sugli occhi ogni volta che escono dalla cella. Questo riduce ulteriormente il loro già scarso contatto con il mondo esterno. Non riescono nemmeno a vedere dove stanno andando e spesso urtano contro i muri. Inoltre, vengono costretti a stare in piedi di fronte a un muro con la benda sugli occhi, una forma di tortura psicologica che aggrava la loro sofferenza.
Chi decide le condizioni di queste persone?
Nel reparto 209 e nel blocco 2A, il controllo è totalmente nelle mani degli interrogatori. Sono loro a decidere se il prigioniero può avere carta e penna, strumenti generalmente vietati. Anche quando li concedono, lo fanno sotto stretta sorveglianza. Magari perché le negoziazioni con le ambasciate li obbligano diplomaticamente a fornire carta e penna ai prigionieri, specie se giornalisti e hanno bisogno di tali strumenti. Ma anche quando fanno questo tipo di concessione, dobbiamo tenere a mente che i carcerieri hanno un controllo totale su ciò che viene scritto. I testi possono essere sottratti loro in qualsiasi momento per essere esaminati e in questo modo capire cosa passa nella mente del prigioniero o utilizzare contro di loro ciò che viene scritto. Dico ciò per far capire come un prigioniero si trovi intrappolato da un ente di sicurezza, mentre in realtà è solo un semplice giornalista, un avvocato o un cittadino iraniano o straniero.
Anche suo marito Reza Khandan si trova ad Evin. Qual è la sua situazione?
Sta affrontando condizioni molto difficili nella sezione 8, dove le celle sono fredde, sporche e infestate da insetti. L’ambiente è insalubre e non idoneo alla detenzione umana. Ogni settimana, quando io e mia figlia andiamo a trovarlo, dobbiamo affrontare la sfida del velo. L’ultima volta ci è stato negato il permesso di incontrarlo. Mia figlia, esasperata, ha protestato con forza, gridando contro questa ingiustizia. Anche mio figlio si è unito alla protesta, ricordando come per anni siano stati privati del diritto di vedere i propri genitori a causa del velo obbligatorio.
Cos’è accaduto precisamente?
Mi hanno nuovamente chiesto di indossare l’hijab. Quando ho rifiutato, mi è stato detto che non avrei potuto fare la visita. Conoscevo l’illegalità di questa decisione, ma ero pronta a rinunciare alla visita per denunciare la questione. Tuttavia, quando a mia figlia Mehraveh è stato impedito di vedere il padre per lo stesso motivo, la situazione è diventata insopportabile per lei. Dopo anni di privazioni simili, ha rivendicato con forza il suo diritto a una visita senza tensioni. Insieme a mio figlio Nima, hanno chiesto che il responsabile della sala visite fosse chiamato a rispondere di anni di ingiustizie. La determinazione di Mehraveh ha portato a una riunione, durante la quale ha raccontato le sofferenze subite dalla nostra famiglia. Presenti alla riunione erano anche il vice direttore del carcere e il capo della sicurezza, ma alla fine siamo tornati a casa senza aver visto Reza. Impedire una visita per la mancata osservanza dell’hijab è un chiaro esempio di abuso di potere statale. Ed è un crimine.