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Se è vero che le immagini valgono più di mille parole, qui ce n’è una che parla da sé: un guanto nero troppo stretto per inchiodare un uomo alla sua condanna. Quel guanto, il grande coup de théâtre di OJ Simpson, che è morto a 76 anni esattamente trent’anni dopo quei fatti che lo hanno reso protagonista del “processo del secolo”.
«Nostro padre Orenthal James Simpson – si legge nel post pubblicato dai familiari per annunciarne la morte - ha ceduto alla sua battaglia contro il cancro. Era circondato dai suoi figli e nipoti. Durante questo periodo di transizione, la sua famiglia vi chiede di rispettare i loro desideri di privacy e grazia». Il privilegio della privacy di cui i figli di OJ non hanno mai potuto godere, barricati in casa davanti alla tv mentre suo padre si trasformava da “leggenda” a “mostro”.
Ex stella del football americano, considerato tra i più grandi giocatori della storia Nfl, e poi volto del grande schermo in almeno una dozzina di film, OJ Simpson deteneva infatti un record del tutto particolare. Che non aveva a che fare né con lo sport né con il cinema: il processo a suo carico fu il caso mediatico più seguito nella storia degli Stati Uniti. Un vero e proprio spartiacque nelle cronache americane, “sorpassato” in tempi recenti (e con tutte le differenze del caso) soltanto dalla vicenda processuale in Virginia tra Amber Heard e Jhonny Depp, con la quale l’isteria collettiva connessa in filo diretto con l’aula di tribunale ha traslocato dalla tv ai social network.
Ecco perché non si può parlare di OJ Simpson senza il suo processo. Per il quale bisogna tornare al giugno 1994: Simpson viene accusato dell’omicidio della moglie Nicole Brown, che due anni prima aveva chiesto il divorzio, e dell’amico Ronald Goldman. I due sono ritrovati morti, colpiti con un coltello nel giardino di casa dei Simpson, a Brentwood, lussuoso quartiere di Los Angeles. Simpson viene arrestato al termine di un rocambolesco inseguimento in auto per le strade di Los Angeles, che tiene il popolo statunitense con il fiato sospeso davanti alla tv. Una ventina di elicotteri riprende la scena dall’alto: le reti televisive interrompono le trasmissioni per seguire il tentativo di fuga a bordo della Ford Bronco di OJ.
Inizia quindi un processo ricco di colpi di scena, che spacca in due l’opinione pubblica. I media parlano della “caduta di un eroe americano”, il caso giudiziario diventa un caso politico, con il quale a finire alla sbarra sono gli Stati Uniti. L’accusa? Razzismo: il “dream team” di avvocati guidati dall’afroamericano Johnnie Cochran centra la strategia di difesa sui comportamenti scorretti e razzisti del dipartimento di polizia di Los Angeles. Ovvero la città in cui era ancora vivo il ricordo della sommossa scoppiata nel 1992 dopo il pestaggio dell’afroamericano Rodney King da parte degli agenti. Tre anni dopo, il 3 ottobre 1995, arriva l’attesissimo verdetto: OJ viene assolto da una giuria a maggioranza afroamericana. Salvo poi essere giudicato colpevole nella causa civile intentata dalle famiglie delle vittime, che si chiude due anni dopo con la condanna al pagamento di 33,5 milioni di dollari.
Nato a San Francisco nel 1947, l’ex giocatore si fa notare durante il periodo scolastico mettendo in mostra le sue doti sportive. Tanto che già prima della vicenda giudiziaria legata al suo nome, OJ era stato uno dei più famosi e amati campioni di football dei suoi tempi, cambiando il modo in cui gli atleti afroamericani venivano percepiti nel mainstream. Diventa una celebrità, volto delle copertina di Rolling Stone. Fino a quando non arrivano i guai giudiziari. L’ultimo nel 2007, quando viene arrestato per furto con scasso in una camera d’albergo a Las Vegas. Condannato a 33 di carcere per rapina e sequestro di persona di cui i primi nove senza possibilità di libertà vigilata, esce di prigione nell’ottobre 2017. E ancora oggi tormenta l’America con una domanda: innocente o colpevole?