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Sembra uno di quegli intrecci beffardi e insondabili che popolano i suoi film, il fatto che David Lynch se ne sia andato nei giorni in cui le fiamme hanno avvolto Mulholland Drive, leggendaria strada collinare hollywoodiana teatro di uno dei suoi viaggi onirici più riusciti e spiazzanti. A dare l'annuncio della morte del 78enne maestro statunitense della regia, sono stati nel tardo i suoi parenti, attraverso un post su Facebook.
Nelle parole utilizzate dai suoi cari, un motto da lui reso famoso e che ne sottolinea la filosofia drammaturgica: “C’è un grande vuoto nel mondo ora che non è più con noi. Ma, come avrebbe detto, guardate la ciambella e non il buco”. Lynch soffriva da tempo di una forma grave di enfisema, che gli aveva reso impossibile continuare a realizzare film. E la sua mancanza, nel panorama cinematografico, si sentiva eccome, data l'unicità del suo stile e la sua carica visionaria.
Non era un caso che i suoi primi contatti con l'arte Lynch, al pari dei suoi colleghi più eccentrici, li aveva avuti nelle vesti di pittore, per poi passare ai primi esperimenti filmici sotto forma di cortometraggio. “Erasehead”, del 1977, rappresenta probabilmente una delle opere prime più dirompenti della storia del cinema, andando a porre i primi mattoni di quell'edificio immaginario che ha reso Lynch inconfondibile: fatto di immagini inquietanti e di situazioni senza un filo logico, né apparente né tanto meno recondito. Ma era proprio questa la scommessa del maestro americano, e cioè quella di strappare il pubblico dai binari del racconto logico e consequenziale e di farlo deragliare verso personaggi e ambientazioni sconnesse, disturbanti, al pari dei sogni che spesso creano imbarazzo in chi li fa e vengono cancellati dal processo di rimozione.
Una “mente che cancella”, per l'appunto, un film interamente votato allo sperimentalismo, che deve molto alla lezione del surrealismo europeo dei Bunuel e - perché no – anche del nostro Marco Ferreri, e la sua potenza fece guadagnare da subito al suo autore un posto di rilievo tra i registi più quotati d'oltreoceano. La cui popolarità, negli anni seguenti, si è potuta affermare con opere come lo struggente “The Elephant man” (che ottenne otto nomination all'Oscar), “Velluto blu”, “Strade perdute”, “Dune” e il citato “Mulholland Drive”.
Storie incoerenti, immagini inquietanti, che però si innestavano su una solida preparazione tecnica di base, così come un pittore d'avanguardia non può essere sprovvisto di una maestria nel figurativo. E per dimostrarlo, Lynch realizzò nel 1999 “Una storia vera”, canonico film strappalacrime classico “all'americana” che narrava la traversata coast to coast di un anziano a bordo del suo tagliaerbe per rivedere il fratello convalescente. Ma che in mano a lui sapeva di diabolico sberleffo ai topos hollywoodiani un po' alla John Waters. Nel nostro paese, Lynch si guadagnò la fama presso il grande pubblico con la serie Twin Peaks, che battà a ripetizione tutti i record d'ascolto agli inizi degli anni 90. E che indusse milioni di persone inizialmente reticenti ad abbandonare la coerenza e gettarsi nel flusso dell'inconscio.