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Quando aveva sei anni il nonno materno le aveva affibbiato un sopranome bislacco: “Ma Barker”.
«Credevo fosse un’astronauta, o un’avvocata famosa, invece era una famigerata gangster». Capo indiscusso della banda Karpis- Barker, "Ma" ha imperversato negli Stati Uniti degli anni 20 e 30, l’epoca cupa del proibizionismo e dei public enemy, rapine, furti, omicidi, sequestri di persona, fino alla morte nel 1935, crivellata di colpi assieme al figlio dagli agenti dell’Fbi di J. Edgard Hoover.
Eppure in quell’accostamento iperbolico c’èra un pizzico di verità. Megan Rapinoe, centrocampista della nazionale e monumento vivente del calcio femminile americano, possiede la determinazione e il coraggio di una leader, ma anche la forza della ribellione e della trasgressione. Che si tratti di guidare le compagne in una rimonta sul campo o di rispondere a muso duro al presidente Trump, «un uomo che incarna tutto ciò contro cui combatto e davanti al quale mai mi inchinerò».
Proprio per la sua avversione al tycoon durante Mondiali, che si stanno disputando in questi giorni in Francia, lei non ha mai cantato l’inno nazionale. Una forma di protesta che ricorda i leggendari pugni chiusi di Tommy Smith e John Carlos alle Olimpiadi di Città del Messico 1968 esibiti mentre risuonavano le note di The Star- Spangled Banne.
Megan è fatta così, così fin da quando era una bambina che adorava due cose: lo sport e l’inseparabile sorella gemella Rachael. «Lei nonno la chiamava “muffin”, dolcetto, eravamo due gocce d’acqua ma di carattere del tutto opposto, io espansiva e un po’ matta, lei un’ape regina, popolare calma e misurata, ero e sono pazza di lei e all’epoca la seguivo ovunque un po’ come quei pesci rossi che si attaccano in cima ai delfini».
Giornate intere dedicate allo street- hockey, al basket, al calcio ( che qui si chiama soccer per distinguerlo dal più popolare football) nei parchi e negli spiazzali di Redding, la cittadina nel nord della California dove è nata.
[caption id="attachment_211323" align="alignnone" width="300"] Megan e la sorella Rachael[/caption]«Amavo tutti gli sport, avevo la canottiera di Michael Jordan, la felpa dei Cowboy starter e giravo con la mia piccola banda di amici terrorizzando il vicinato, dai 5 ai 12 anni mi sono divertita un sacco», racconta scherzando in un bellissimo pezzo autobiografico che ha firmato sul The player tribune, un sito web che ospita articoli di sportivi, più o meno celebri.
Poi arriva l’adolescenza, «gonne, ragazzi, feste da ballo, intorno a me tutti cambiavano dal giorno alla notte e questa cosa mi ha colpita come un treno merci, io ero rimasta il “maschiaccio” che voleva solo fare sport e in quel momento ho scelto il calcio». Anche perché, con la palla tra i piedi, Megan era di un’altra stoffa.
La sua non è la solita storia della bambina che si doveva travestire per giocare con i maschi o che decapitava le bambole trasformando la testa di Cicciobello in un pallone come raccontano molte calciatrici di paesi di consolidata cultura maschilista come il Brasile o la stessa Italia tanto per fare due esempi.
Negli Usa il soccer femminile è considerata una cosa seria, le atlete sono seguite e rispettate e nessun giornalista trombone potrebbe permettersi di discettare sui giornali di quanto i maschi siano più forti e bravi delle donne nel calciare la palla. Nel 1999 viene convocata nella selezione under 14 della California, facendo innamorare i tifosi e agli addetti ai lavori: ambidestra, coriacea, un moto perpetuo a centrocampo e un tiro dalla distanza che spacca le porte.
Una giocatrice universale che ricorda il ceco Pavel Nedved, per la chioma bionda, per i colpi fuori dal comune e per quella innata capacità di stare sempre “dentro” la partita, sempre sul pezzo. In quello stesso anno ci furono i Mondiali, li vinsero gli Stati Uniti che erano anche il paese organizzatore: «Seguivo tutte le partite in tv, in semifinale sono andata con mia sorella Rachael allo stadio di Stanford per la semifinale Usa- Brasile, 70mila persone, un’emozione immensa, ho capito che volevo diventare una professionista, quel giorno molte ragazze come me avranno avuto lo stesso pensiero, lo stesso sogno».
Nel 2002 entra nella nazionale under 16, nel 2003 nella under 19 dove gioca sotto età, poi l’approdo in nazionale maggiore nel 2006. Intanto nel suo club, i Portlands Pilots è già una star e vince quattro campionati della West Conference in cinque anni ( 2004, 2005, 2007, 2008).
Nel 2009 viene creata la Women's Professional Soccer, Rapinoe è ingaggiata dai Chicago red star e in seguito dai Philadelphia Indipendence, poi, nel 2012 un fugace passaggio al Sidney Fc e nel 2013 l’esperienza in Francia all’Olympique lyonnais prima di ritornare in patria nel Seattle Reign FC. Con la maglia degli Stati Uniti ha disputato 141 partite segnando 41 reti, conquistando l’oro Olimpico a Londra nel 202 e il Campionato del mondo nel 2015 in Canada.
Una carriera fantastica per una «sportiva e una persona straordinaria» come la descrive il suo grande amico David Beckham, uno che calcio se ne intende.
Se il prossimo 7 luglio le calciatrici Usa diventeranno campionesse del mondo per la quarta volta, Megan Rapinoe potrà alzare da capitana la sua coppa al cielo. Ma di portare acqua al mulino dell’odiato Donald Trump non se ne parla: come ha promesso alla vigilia, in caso di vittoria per lei niente ricevimento ufficiale alla Casa Bianca niente «inchini» a un uomo che detesta.
Un insolente sgarbo al presidente e alla bandiera come suggeriscono alcuni osservatori d’oltreoceano? Macché, la patria non c’entra nulla: «Io amo perdutamente l’America, ma invece dell’inno nazionale preferisco cantare a squarciagola Born in the Usa del mio mito Bruce Spingsteen».