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È un giorno triste per l’America, un «tragico errore» l’ha riportata indietro di almeno 50 anni. Joe Biden prende parola in serata, quando ormai mezzo paese è in rivolta perché la Corte Suprema degli Stati Uniti ha cestinato in un colpo il diritto all’aborto. Lo ha fatto annullando la storica sentenza del 1973, la Roe vs Wade, che garantiva alle donne la possibilità di scegliere. «La Costituzione non garantisce un diritto all’aborto», si legge nella sentenza di ieri, «l’autorità di regolare l’aborto torna al popolo e ai rappresentanti eletti». Tradotto: ora spetterà ai singoli Stati decidere sul divieto, e in Texas e Missouri già brindano. Ma «non è finita», quella della Corte «non può essere l’ultima parola», assicura Biden. Che ha lanciato un appello al Congresso per ripristinare l’accesso all’interruzione di gravidanza con una legge federale. Nel frattempo le donne potranno recarsi negli Stati dove abortire è permesso, con le garanzie mediche previste dalla Food and drug administration, l’ente americano del farmaco. Ma il fatto è che non ne resteranno poi molti, visto che sono già 22 gli Stati che hanno varato “trigger law”, leggi grilletto, destinate ad entrare immediatamente in vigore ora che lo scudo della Roe è caduto. Come si è arrivati a questo punto? Per il presidente Usa la colpa è tutta dei tre giudici nominati da Trump - Neil Gorsuch, Brett Kavanaugh e Amy Coney Barrett - la cui decisione è la «realizzazione di un’ideologia estrema». A votare per l’annullamento della Roe sono stati in tutto cinque giudici conservatori, contrari i tre togati liberal che hanno manifestato il proprio «dissenso». Il presidente della Corte, John Roberts, non si è unito alla maggioranza. Ora si apre la fase più delicata: sul terreno politico, e sul fronte del diritto. Per salvaguardare anni di battaglie civili e una giurisprudenza consolidata, confermata nel ’92 con la sentenza Planned Parenthood vs Casey. «Dio ha preso la decisione», esulta Trump. «La Corte Suprema ha relegato la decisione più intensamente personale che qualcuno possa prendere ai capricci di politici e ideologii», commenta l’ex presidente Usa, Barack Obama. Mentre Michelle «ha il cuore spezzato». Lo stesso dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti, per voce del procuratore generale Merrick Garland, attacca la Corte. La quale «ha eliminato un diritto stabilito che è stato componente essenziale della libertà delle donne per mezzo secolo, un diritto che ha salvaguardato la capacità delle donne di essere pienamente ed egualmente parte della società - si legge nel comunicato -. Nel rinunciare a questo fondamentale diritto, che è stato più volte riconosciuto e riaffermato, la Corte ha rovesciato la dottrina dello stare decisis, un pilastro dello stato di diritto». A condurre la battaglia dei conservatori il giudice Samuel Alito, che questa decisione la aveva annunciata un mese fa, quando una clamorosa fuga di notizie aveva anticipato l’indirizzo della Corte. Che è stata chiamata ad esprimersi sulla legge approvata nel 2018 in Mississipi, la quale vieta l’aborto dopo la quattordicesima settimana di gravidanza. Nelle 98 pagine licenziate a maggio da Alito si affermava che la sentenza del ’73 è «clamorosamente sbagliata sin dall’inizio», perché fondata su «un’argomentazione eccezionalmente debole che ha avuto conseguenze negative» con il risultato di «infiammare il dibattito ed aumentare le divisioni». Per comprendere le sue parole bisogna tornare indietro. Nel 1973, quando l’aborto negli Usa era ancora disciplinato da ciascuno Stato con una legge propria. E il servizio era garantito soltanto in circostanze eccezionali, in caso di stupro o di pericolo di vita per la donna. La volontà non era contemplata. Nel 1969 un team di avvocate decise di portare la battaglia di Norma McCorve, alias Jane Roe (da cui il nome della sentenza) in tribunale. Norma si era sposata a 16 anni con un uomo violento, da cui aveva già avuto tre figli. E voleva interrompere la sua terza gravidanza, sfidando la legge del Taxas. A difendere le ragioni del Texas vi era l’allora attorney general Henry Wade. La Corte decise a larga maggioranza, sette giudici contro due, in favore della donna – che intanto aveva comunque avuto la sua terza figlia – stabilendo che, sebbene la Costituzione non affronti direttamente la questione del diritto all’aborto, questo viene tutelato dal diritto alla privacy, inteso come diritto alla libera scelta di ciò che attiene alla sfera più intima dell’individuo. Alla base c’è un’interpretazione del 14esimo emendamento, che sancisce i fondamenti del giusto processo e stabilisce che nessuno Stato può “privare qualsiasi persona della vita, della libertà o della proprietà senza un processo nelle dovute forme di legge”, né può “negare a qualsiasi persona sotto la sua giurisdizione l’eguale protezione delle leggi”. Alito contesta che il 14esimo emendamento sia stato «introdotto in un’epoca in cui neanche si discuteva di aborto». Ma il giudice della Corte Harry Blackmun, largamente sostenuto, allora argomentava: «Noi concludiamo che il diritto alla privacy personale comprende la decisione di abortire», perché si tratta di un diritto che deve «prevalere sugli interessi regolatori degli Stati».