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Matteo Renzi non vuole sentirselo dire. Egli suole infastidirsi al paragone con Bettino Craxi: un personaggio “ non didattico”, disse una volta motivando da sindaco di Firenze il rifiuto di dedicargli una strada, come aveva chiesto invece la figlia dello scomparso leader socialista. Gli preferisce Enrico Berlinguer, opposto un’altra volta da Renzi, per la sua “generosità”, all’” opportunismo” del rivale morto ad Hammamet.
Ma in questi giorni e in queste ore in cui si accavallano le voci e le smentite più disparate - le ultime delle quali riguardano l’allarme sulle primarie congressuali del Pd lanciato dalla Stampa per il timore di riverberi della vicenda giudiziaria in cui è coinvolto il padre dell’ex presidente del Consiglio e segretario del partito - Renzi sembra proprio nelle condizioni di Craxi nella tarda primavera del 1992.
Allora il leader socialista aspirava a tornare a Palazzo Chigi, da dove Ciriaco De Mita lo aveva sfrattato nel 1987, come ora Matteo Renzi aspira a tornare almeno al Nazareno, alla guida del partito, avendo perduto volontariamente il governo per la sconfitta referendaria del 4 dicembre scorso sulla riforma costituzionale.
Come oggi Matteo Renzi fa continuamente i conti con le voci sul grado di coinvolgimento del padre nelle inchieste sugli appalti della Consip, la centrale degli acquisti per la pubblica amministrazione, così Craxi 25 anni fa faceva i conti con le voci sul coinvolgimento del figlio Bobo nell’inchiesta esplosa con l’arresto - in flagranza di mazzette - di Mario Chiesa. Che aveva aiutato il figlio di Craxi nella campagna elettorale di qualche anno prima per il Consiglio Comunale di Milano.
Alla direzione del Giorno una sera sì e l’altra pure mi telefonava un comune amico per annunciarmi, preoccupato, l’imminente arresto del figlio di Bettino. Intanto arrivavano a Montecitorio le richieste di autorizzazione a procedere contro il cognato di Craxi, Paolo Pillitteri, e il predecessore Carlo Tognoli a Palazzo Marino.
In quell’orribile scenario entrò a gamba tesa persino la mafia con la strage di Capaci, mentre a Roma il Parlamento cercava di eleggere il nuovo presidente della Repubblica.
La mafia, per fortuna, è oggi molto più debole, checché ne pensino il pubblico ministero Nino Di Matteo e, più in generale, i cultori del processone in corso da quasi quattro anni sulle presunte trattative fra lo Stato e la stessa mafia, risalenti secondo l’accusa proprio alle stragi del 1992. Vengono i brividi solo al ricordo.