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La sberla del 4 marzo, e ancor prima quella del 4 dicembre, non smette di far male. E contro la strategia dettata da Renzi escono allo scoperto anche i dirigenti più cauti. Dario Franceschini, da tempo in rotta di collisione con l’ex premier, si concede un tweet senza giri di parole: «È arrivato nel Pd il tempo di fare chiarezza», esordisce il ministro dei Beni culturali. «Dalle sue dimissioni Renzi si è trasformato in un Signornò, disertando ogni discussione collegiale e smontando quello che il suo partito stava cercando di costruire. Un vero leader rispetta una comunità anche quando non la guida più».
Le fazioni del Pd si lanciano segnali di guerra come appartenessero a opposti schieramenti. Le notizie che arrivano dal Friuli, dove il Pd regge all’ondata populista ma non riesce a mantenere la Regione amministrata da Debora Serracchiani, non aiutano a rasserenare il clima. «Se ti dimetti, ti dimetti», dice irritato il mite Gianni Cuperlo. In senatore Renzi ha tutto il diritto di dire ciò che pensa, è il ragionamento del leader della minoranza dem, «ma non abbiamo mai discusso veramente, abbiamo fatto una sorta di rimozione di quanto era accaduto dopo il voto», è la recriminazione che Cuperlo muove al suo ex segretario. Perché «un partito non discute della sua linea in una trasmissione politica, ma convoca i suoi organi» dirigenti.
Nel corso della giornata, il confronto tra anime del Pd si trasforma in una battaglia a colpi di tweet e post: renziani contro “resto del mondo” dem. La guerra fratricida va in scena nelle stesse ore in cui Matteo Salvini esulta il trionfo friulano e si propone come presidente del consiglio. «Ieri Matteo Renzi ha indicato senza ambiguità una via al Pd e al Paese con tre grandi sì», scrive sui social il senatore David Faraone, replicando al reggente Martina. «Sì al rispetto della volontà degli elettori, sì a rivendicare le tante cose buone fatte al governo e sì ad una fase costituente. Da ieri il Pd ha ripreso vigore, altro che estinzione». Michele Anzaldi definisce invece «surreali», gli attacchi indirizzati all’ex premier e punta il dito contro il reggente, accusandolo di aver aperto un dialogo con i Cinquestelle senza alcuna autorizzazione da parte della direzione. «Di che rispetto si parla, se il primo a mancare è il rispetto per i nostri elettori, umiliati da chi vuole dare la fiducia al governo Di Maio, come qualche nostro collega di partito ha sostenuto?», domanda il deputato renziano, secondo cui l’intervento del segretario dimissionario si è reso necessario per fare chiarezza e porre fine a una «gestione politica e comunicativa sconclusionata».
Il botta e risposta prosegue fino a sera. E non tocca di certo a Michele Emiliano usare il guanto di velluto con Renzi, considerato responsabile di voler «bunkerizzare quel che rimane del Pd». Poi nella mischia si getta anche Nicola Zingaretti, da tempo in trattative col Movimento 5 Stelle per formare una maggioranza in Regione Lazio, a cui l’intervento l’ex segretario non ha di certo fatto piacere. «Se si vuole bene a un partito un leader ha mille occasioni per far valere un’idea o la sua linea. Se si va in tv, a poche ore dalla direzione, a fare uno show si genera solo caos e confusione», scrive su Facebook. «Questo dopo una lunga serie di sconfitte è molto grave».
La battaglia interna ora è sospesa: la pausa del primo maggio servirà a tutti per rifiatare. La resa dei conti riprenderà il 3 maggio, con la conta in direzione.
DURISSIMO IL MINISTRO: «È ARRIVATO NEL PD IL TEMPO DI FARE CHIAREZZA. DALLE SUE DIMISSIONI RENZI SI È TRASFORMATO IN UN SIGNORNÒ»