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Pur di non ammettere che la tesi giudiziaria è polverizzata, si cerca di confondere l’opinione pubblica sovrapponendo la “trattativa” (o meglio un bluff), quella intercorsa tra gli ex Ros e Vito Ciancimino (e riferita alla procura di Palermo già nel 1993, senza che giustamente i pubblici ministeri ravvisassero elementi “indicibili”) e la “Trattativa Stato- mafia” che racconta una storia totalmente diversa e smantellata con le assoluzioni definitive.
Prima di entrare nel merito della “confessione” dell’ex Ros Mario Mori, bisogna ripartire dai capi d’accusa che dettero l’avvio al processo Trattativa. È qui che si costruisce la storia – in seguito completamente sbugiardata dai fatti - raccontata dai pubblici ministeri palermitani di allora. Il capo A della richiesta di rinvio a giudizio indica l’esistenza, a partire dal 1992, di un articolato piano di attentati ordito dai vertici di Cosa nostra per “ricattare lo Stato” e costringerlo a ridimensionare l’azione di repressione e contrasto alle organizzazioni mafiose, la cui realizzazione avrebbe avuto inizio con l’omicidio dell’eurodeputato Salvo Lima per poi proseguire con la progettazione di omicidi e l’esecuzione di stragi.
Secondo l’accusa, il proposito criminoso dei vertici mafiosi si sarebbe rafforzato in ragione della condotta tenuta da alcuni esponenti delle istituzioni preposte alla difesa della sicurezza interna e all’applicazione di misure repressive delle azioni criminali. Più precisamente, sulla base della tesi esplicitata dal pubblico ministero, in alternativa a una fisiologica repressione del crimine mafioso senza mediazione alcuna da parte degli organi pubblici competenti (forze dell’ordine, polizia giudiziaria, magistratura), alcuni pubblici ufficiali e alcuni esponenti politici di primo piano avrebbero attivato “canali di dialogo” con esponenti mafiosi, manifestatisi trasversalmente e in forme diverse nel circuito istituzionale a partire dall’estate del 1992. Il “dialogo” avrebbe avuto a oggetto la disponibilità a trattare sulla concessione di benefici penitenziari e sull’intervento penale in cambio della cessazione degli attentati. In altri termini gli atti di minaccia indicati dai Pm di Palermo, suscettibili di integrare l’ipotesi di reato cui all’art. 338 del codice penale (violenza o minaccia a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario), e materialmente attribuiti ai capi della organizzazione mafiosa, vengono connessi alle condotte degli ex Ros ed esponenti politici (più precisamente Calogero Mannino in qualità di ministro) che, agendo con abuso di potere e in violazione dei doveri inerenti a una pubblica funzione, hanno finito per rafforzare il proposito criminoso dei primi sempre pronti a rinnovare le minacce per ottenere quanto preteso, così integrando una ipotesi di concorso morale.
In sostanza, così come d’altronde si legge nella richiesta di rinvio a giudizio, la storia “Trattativa Stato-mafia” si svolge in questo modo: le ripetute minacce all’indirizzo dell’onorevole Mannino, a partire dal febbraio del 1992, sarebbero finalizzate a creare un “rapporto di interlocuzione nuovo” con il mondo politico, per la cura degli interessi finanziari e per contenere l’azione repressiva dello Stato, una volta che Cosa nostra ha deciso di eliminare alcuni referenti del passato quali l’onorevole Lima. Quindi cosa accade secondo questa narrazione meta- giudiziaria? Mannino, tramite l’allora capo dei Ros Antonio Subranni, ordinò l’avvio di questa trattativa per salvare la sua pelle. Gli ex ros Mori e De Donno si misero al servizio della politica instaurando il dialogo con Vito Ciancimino, che sfociò nella redazione di un documento proveniente da Riina, il cosiddetto “papello”, con una serie di richieste scritte sui benefici per la organizzazione mafiosa, relativi principalmente alla legislazione penale, in cambio della cessazione delle stragi. Documento fatto pervenire per il tramite di Antonino Cinà, uomo vicino a Riina.
Tutta questa narrazione è stata smantellata da varie sentenze definitive che hanno dovuto affrontare anche la storia della “trattativa Stato-mafia”: a partire da quella su Mannino il quale scelse il rito abbreviato, quella sulla cosiddetta mancata perquisizione del “covo” di Riina e la “Mori-Obinu” sulla presunta mancata cattura di Provenzano, fino all’esito giudiziario attuale sancito dalla Cassazione. Non è vero che Mannino dette l’input all’avvio della trattativa, non è vero che gli ex Ros hanno veicolato la minaccia al governo e non è vero che quest’ultimo si è piegato di fronte alle minacce. Nessun patto indicibile con la mafia.
Ma quindi Mori ha confessato tale “trattativa Stato- mafia”? Non ha confermato una sola virgola di questa narrazione. In questi giorni si ripesca la sua deposizione del 24 gennaio 1998 durante il processo di Firenze sulle stragi continentali del 1993. Si riporta in sostanza questo suo passo in merito ai contatti che ha avuto con don Vito: “Ma signor Ciancimino, ma cos’è questa storia qua? Ormai c’è muro, contro muro. Da una parte c’è Cosa nostra, dall’altra parte c’è lo Stato? Ma non si può parlare con questa gente?”. Ha confessato cosa? Sostanzialmente ciò che era già a conoscenza dalla procura di Palermo nel 1993, quando Ciancimino stesso fu sentito e messo al verbale tutto. Nulla che ha fatto sobbalzare i pubblici ministeri di allora. Nulla a che fare con la storia della “Trattativa Stato- mafia” narrata in seguito dalla pubblica accusa. E in che cosa è consistita? Mori stesso lo ribadisce in quella famosa deposizione che ora va di moda ripescarla. Fu un bluff. Ciancimino abboccò all’amo. Nel quarto incontro, infatti don Vito disse a Mori: “Quelli accettano la trattativa, le precondizioni sono che l’intermediario sono io e che la trattativa si svolga all’estero. Voi che offrite in cambio?”.
Ebbene, sempre Mori racconta che a quel punto non poteva più allargare il brodo, perché sapeva benissimo che quella manovra della trattativa fosse un escamotage per uscire dai domiciliari e rifugiarsi in sicurezza all’estero. E allora gli disse: “Beh, noi offriamo questo: i vari Rina, Provenzano e soci si costituiscano e lo Stato tratterà bene loro e le loro famiglie”. A quel punto Ciancimino si inalberò, comprese il bluff, e rispose: “Ma voi mi volete morto!?”. Un bluff che poi servì perché si aprì un varco: Ciancimino li ricontattatò per accettare di aiutarli ad arrivare a Riina e Provenzano, si propose di fare una specie di agente provocatore per inserirsi nel mondo degli appalti, voleva in cambio un aiuto per aggiustare la sua posizione giudiziaria, e propose di voler essere ascoltato in commissione antimafia. Non male. Ma tutto sfumò nel momento in cui Ciancimino fu – su segnalazione dell’allora guardasigilli Martelli – riportato in carcere di Rebibbia. Dopodiché decise in quale modo di continuare a collaborare. A quel punto Mori avvisò il neocapo procuratore di Palermo Giancarlo Caselli. Quest’ultimo e l’allora pm Ingroia, decisero di ascoltare Ciancimino. Ed è proprio quest’ultimo – precisamente parliamo del verbale datato 17 marzo 1993 - a raccontare di trattative, contatti con gli intermediari mafiosi a seguito del dialogo instaurato con i Ros. Parlò pure della proposta da lui considerata oscena che gli fece Mori: quella della resa, la consegna di Riina e Provenzano. Tutto. Ma non è la “trattativa Stato-mafia”, quella che poi verrà narrata in seguito al livello processuale. Altrimenti, Caselli stesso, persona indiscutibilmente seria ed integerrima, avrebbe subito inquisito Mori. Nessuna confessione. E ci vuole tanta disonestà intellettuale nel riproporre questa bufala ben sapendo che l’opinione pubblica non è a conoscenza di questi fondamentali dettagli.