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Calogero Mannino è un politico di razza. Esponente di punta della Prima Repubblica, è stato più volte ministro. Arrestato nel 1994 con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, dopo nove mesi di carcere, tredici di arresti domiciliari e una trafila giudiziaria estenuante, nel 2010 è assolto definitivamente dalla Cassazione perché il fatto non sussiste. Le traversie giudiziarie non hanno piegato il suo orgoglio di uomo del Sud. Attualmente è titolare di una azienda vinicola a Pantelleria dove produce un eccellente passito. Oltre all’attività imprenditoriale, dal 2012 è di nuovo sul banco degli imputati nel processo trattativa Stato- Mafia.
Onorevole Mannino, la procura di Palermo non molla?
Nel 2012 ho scelto di essere processato con il rito abbreviato. Rito che si basa solo sugli elementi di prova portati dall’accusa. Ero certo dalla mia innocenza. Nel 2015, sono stato assolto in udienza preliminare per non aver commesso il fatto. La procura, nelle scorse settimane, ha presentato appello. I pm di Palermo sono convinti da sempre che io abbia nel corso della mia vita intessuto rapporti con Cosa nostra. E’ una narrazione “funambolica” che si trascina da anni.
Lei è stato un dirigente della Dc siciliana negli anni in cui Cosa nostra è cresciuta...
Prima dell’approvazione del disegno di legge La Torre sul 416bis, vorrei ricordare che il tema del contrasto a Cosa nostra è un punto qualificante della mozione presentata dalla Dc alla fine del 1979, poi discussa ed approvata in parlamento il 2 febbraio 1980. In quella mozione si approvavano le conclusioni della Commissione antimafia. I relativi lavori interessarono le due legislature precedenti. Quella mozione era stata scritta da me in rappresentanza del gruppo parlamentare della Dc su incarico dell’allora presidente Gerardo Bianco. In un primo momento questa mozione doveva portare la firma dell’On. La Torre e del gruppo del Pci. Il lavoro di preparazione era stato intenso. Sia da parte mia e di Bianco che da Di Giulio e La Torre per il Pci. Il Pci di Berlinguer aveva, però, poi fatto marcia indietro, sfilandosi dalla politica di solidarietà nazionale. E non sottoscrisse più la mozione. Nel 1980 optò per una propria mozione anche se nel merito condivideva la mozione della Dc. L’atto fondamentale sul piano politico istituzionale con il quale la politica si accingeva ad affrontare Cosa nostra alla fine degli anni ‘ 70 e ‘ 80 è dato dalle proposte contenute nella mia mozione. Dopo il governo Cossiga fu la volta di Forlani e poi di Spadolini. Il 1982 anno tragico: assassinio di Dalla Chiesa e dello stesso La Torre. Fu a quel punto che il governo diede la propria adesione al testo approvando l’introduzione del 416bis.
Tornando alla procura di Palermo, il pool segnò un cambiamento nel forme di contrasto a Cosa Nostra?
Il pool ha avuto una genesi particolare. Un gruppo di lavoro composto da magistrati della procura della Repubblica e dall’Ufficio istruzione. Giovanni Falcone ebbe il merito di aver avuto l’intuizione investigativa di puntare sui collaboratori di giustizia, con il primo pentito Tommaso Buscetta. E’, però, indiscutibile che questa operazione segnò non solo la storia giudiziaria della lotta alla mafia ma la storia del Paese non si sarebbe potuta realizzare senza il consenso della linea politica assicurata dalla Dc siciliana di quegli anni. Voglio ricordare che nessuno, neanche Salvo Lima, nel 1983 volle i voti di Vito Ciancimino. Al nono congresso regionale della Dc siciliana, l’ ex sindaco di Palermo offrì ben 45mila voti. Io espulsi Ciancimino e vinse il rinnovamento. Salvo Lima sconfitto, Vito Ciancimino umiliato. La Dc siciliana sceglieva l’ immagine dei quarantenni, Sergio Mattarella, Rino Nicolosi ed io. Chi ha voglia di leggere il libro di Ciancimino junior troverà che questa estromissione avrebbe segnato l’inizio del suo “percorso giudiziario”.
Che ricordo ha di Giovanni Falcone?
Una mente finissima. Anche se in vita Falcone fu spesso osteggiato. Non superò le votazioni per il Csm. E lo stesso Csm gli negò la responsabilità dell’ufficio istruzione del Tribunale di Palermo. In pochi giorni il Ministro istituì allora il posto di aggiunto alla procura della Repubblica in modo che potesse avere una posizione di rilevo all’interno dell’ufficio.
Come legge il 1992, l’anno delle stragi?
Cosa nostra ritenne di dover dare l’ultima battaglia contro lo Stato. Molti dei suo esponenti erano in galera, ma non tutti. Quelli che erano fuori puntavano alla vendetta. Gli episodi stragisti, in coincidenza con i fatti di tangentopoli, determinarono la crisi del sistema politico. Il parlamento venne sciolto e le elezioni, con un sistema elettorale di tipo maggioritario, segnarono la fine della Dc. Nessuno può negare che le stragi di quel periodo segnarono un cambiamento radicale dell’impianto istituzionale. A ciò si devono aggiungere i processi Andreotti e Mannino. Cosa nostra è stato un mezzo per spazzare via un sistema che aveva governato dalla fine delle seconda guerra mondiale. La narrazione giornalistica fornisce, però, un altro quadro.
E veniamo al processo trattativa Stato- Mafia...
Io non so se c’è stata una trattativa con Cosa nostra. Non so cosa abbiamo fatto gli ufficiali dei Carabinieri, i Generali Mori e Subranni con cui sono coimputato. Dico solamente che il Ros di Mori consegnò al procuratore capo Caselli un finto pentito, Gioacchino Pennino, “il Buscetta della politica palermitana”. Pennino era un medico chirurgo della Palermo bene che aveva fatto fortuna con i casinò in Croazia. Nel marzo del ’ 94 è stato arrestato ed estradato per associazione a delinquere. Decide di collaborare accettando l’estradizione per associazione mafiosa. Pennino si definisce “un vero cataro”. Parla, anzi straparla, e io fui arrestato. I fatti dimostrano che io ero la vittima designata. Per la mia storia non mi vedo come un riferimento in una trattativa. Solo la mia forza d’animo mi sta aiutando a sopportare questo calvario. Certo, a volte penso cosa possa indurre i Pm su queste tesi. Non si rendono conto dell’abbaglio?